La musica e le parole

Ivano Fossati – “C’è tempo”

Da ragazzo il povero cristo cantava canzoni in inglese senza conoscere la lingua. A scuola aveva studiato francese: così si usava, in prevalenza, nelle scuole del Regno delle Due Sicilie, e poi l’idioma era noto in famiglia. Dunque doveva arrangiarsi. Con i suoi soci in musica ascoltava per ore “Help!” e “Day Tripper”, ricavandone delle grottesche trascrizioni foniche: non erano ancora arrivati gli “Shampoo”, che sul tema avrebbero detto parole definitive.

La faccenda si complicò quando, nei famigerati anni ’70, le copertine degli LP cominciarono a contenere i testi dei brani: intanto perché diventarono ingiustificabili pronunce approssimative, ma soprattutto perché – con l’avanzare dell’età e la “crescita della coscienza” – si cominciò a cercare il senso della musica che amavamo alla follia, studiandone i testi. Così scoprimmo – noi, intemerati rivoluzionari – che i versi visionari e gotici dei King Crimson profumavano più di campi Hobbit che di riunioni di collettivi. E che il fascinoso sound californiano di CSN&Y, tutto sommato, faceva leva sugli stessi zuccherosi sentimenti cui si appellavano Nada e Donatello.

Da tutto ciò il povero cristo ricavò la conclusione che quello che contava era la musica, non le parole. Lo pensava, in fondo, da sempre. Da bambino si nutriva di fughe, toccate e sinfonie, e odiava la lirica – genere minore e grossolano – anche perché non percepiva una sola delle parole che uscivano dalle fauci spaventose e perennemente spalancate di Anna Moffo e di Mario Del Monaco. Ora, da consumatore pop, non amava, anzi detestava Guccini: fiumi di parole arrabbiate su insulsi giri di Do. Era infastidito dalla verbosità ampollosa di Gaber. Sopportava a stento il primo De Gregori, giusto perché l’ermetismo dei testi giovanili lo accreditava come un pensoso intellettuale. Non prendeva neppure in considerazione i Lolli Rosso Bertoli e tutta la lunga schiera di strimpellatori della rivoluzione in marcia. Infine, absit iniuria verbis, non gli andava a genio neppure Fabrizio De André: sì, altra classe, ma sempre tante parole e poca musica.

Poi, alla fine degli anni ’80, gli capitò di appassionarsi (“La pianta del té”, un bell’album) a Ivano Fossati, e cominciò anche a masticarne i testi. Un po’ pretenziosi (come in “Discanto”), a volte ideologici, ma, con il passare degli anni, sempre più maturi e asciutti, e sempre meglio combinati con soluzioni musicali mai banali. Fino a tradursi, nel 2003, in un capolavoro in poesia e musica: “C’è tempo”. Un brano costruito su un testo intenso e commovente, che si esalta nella parte centrale con uno splendido crescendo lirico e armonico.

Ps. Il povero cristo confessa che nelle ultime settimane corre ascoltando con deferenza “In direzione ostinata e contraria”, e tutti i testi di Faber ormai gli sono familiari e cari. In particolare “Anime salve”, cantata insieme da De André e Fossati è un gioiello, in parole e musica.