Il potere è ridicolo

Sì, il potere è ridicolo. Più si è consapevoli di questo, più lo si maneggia nella maniera giusta, dice Claudio Velardi con cognizione di causa, una lunga militanza nel Partito comunista e un’esperienza a Palazzo Chigi con Massimo D’Alema. Il lobbista più chiacchierato d’Italia fa campagna di comunicazione per Renata Polverini (ma anche per Vincenzo De Luca) e festeggia con i suoi soci, Napoli e Micucci, dieci anni di vita di Reti.
La maniera più ovvia e consumata per raccontare Claudio Velardi è quella di rappresentarlo come un venduto, uomo senza scrupoli, mangia-pane-a-tradimento, furbacchione di quattro cotte, spregiudicato equilibrista, uno che ha messo a capitale l’esperienza di influente consigliere (qualcuno, incattivito, preferisce dire ‘consigliori’) di Massimo D’Alema.
Di essere odiatissimo Velardi lo sa bene ma pare che la cosa non turbi i suoi sonni. Napoletano ridente e spernacchiante, senza troppi peli sulla lingua, quando tira sberle fa maluccio. Ne sanno qualcosa, tra gli altri, Walter Veltroni e Giovanna Melandri, Vincenzo Vita, Pietro Folena e Fabio Mussi, tutti tipetti che ha sfregiato con giudizi pesanti e irrispettosi. Che sia ruvido e incazzoso è cosa risaputa, come è noto che sia un tipo suadente e scattante, jogger consumato da chilometri e chilometri di parchi romani e partenopei.
Cinquantaseienne di lungo corso politico, Velardi ha militato prima nel Pci, poi nel Pds, poi nei Ds. Fra l’autunno del 1998 e la primavera del 2000 ha fatto parte del gruppo ristretto dei ‘D’Alema boys’ ricavandone una fama che lo segue e lo perseguita. Quando qualcuno glielo ricorda, lui, sia pure per un istante, si incazza ma poi cede alla risata sfottente. Il 12 maggio prossimo venturo si appresta a festeggiare con i suoi soci, i suoi collaboratori e la crème politica, finanziaria e mediatica italiana, i dieci anni di vita di Reti, che oggi si attesta come la lobby più potente del nostro Paese. Insieme a Massimo Micucci e Antonio Napoli, due sodali di dalemiana memoria, Velardi ha mandato a quel paese la militanza politica e consolidato un piccolo sistema di potere che ha come base logistica un ampio e assolato attico di quel Palazzo Grazioli che è ormai simbolo regale dell’egemonia berlusconiana (il presidente del Consiglio abita al secondo piano), crocevia di ministri e ragazze di coscia allegra. Velardi è stato molte cose (fra l’altro l’editore del Riformista) e tra queste anche assessore alla Cultura di Napoli nell’ottobre del ’95 con Bassolino. L’esperienza durò un solo mese, la reputazione molto di più. Breve anche la sua nomina ad assessore al Turismo della Regione Campania (sempre con l’eterno Bassolino) dal febbraio 2008 al giugno 2009. Figlio della piccola borghesia partenopea (il padre era proprietario di una tipografia, la madre insegnante di musica, lui allievo del liceo classico Genovesi), dice di non veder l’ora di diventare nonno, ma è difficile immaginarlo seduto su una panchina a badare ai nipotini. Con un altro compare del giro di D’Alema – Fabrizio Rondolino – ha aperto un blog (www.thefrontpage.it) dove dalle scarpe si toglie non sassolini ma interi macigni. Nella competizione elettorale per le regionali ha preso in mano la campagna di Renata Polverini, candidata del Pdl. Ma anche quella di Vincenzo De Luca, banalmente noto come il ‘sindaco sceriffo’ di Salerno e candidato del centrosinistra.


Prima – Dieci anni di esperienza di lobby in un Paese dove la parola lobby evoca significati opachi e oscuri, un termine al limite del tabù.
Claudio Velardi – Rivendico il merito di avere sdoganato quel termine, parlandone in modo aperto e facendo della trasparenza un punto di forza.


Prima – Come è cambiato il mondo delle lobby in questi ultimi dieci anni?
C. Velardi – Fino al nostro arrivo la lobby in Italia era, da una parte, il mondo delle tradizionali associazioni di interessi (dai sindacati alla Coldiretti, alle associazioni professionali, eccetera) e, dall’altra, il mondo dei lobbisti composto da ex parlamentari o ex giornalisti o ex addetti stampa che facevano questo mestiere per conto proprio. Tutto questo si sfalda con la Prima Repubblica. Con la cosiddetta Seconda Repubblica noi di Reti, prima società  a fare in maniera esplicita e trasparente il mestiere di lobbisti, abbiamo coperto un vuoto tra la società  e il sistema politico, scombiccherato e disordinato, che stava emergendo.


Prima – Cosa c’è di nuovo nel vostro fare lobbying?
C. Velardi – Intanto la facciamo ‘à  la manière’ anglosassone, e cioè attraverso una professionalizzazione dei servizi resi al cliente in maniera esplicita con tanto di codice etico e deontologico. Gli altri ci sono poi venuti dietro.

Prima – È un piacere ascoltarla mentre si fa i complimenti.
C. Velardi – Mi dia tempo. Il secondo punto cruciale di novità  che abbiamo immesso nel sistema sta nel nostro nome: Reti. Pensavamo e continuiamo a pensare che il lavoro in Rete sia una componente decisiva per la nostra attività .

Prima – Si spieghi, per favore.
C. Velardi – Intanto nel senso di Rete/Internet, innovazione che abbiamo seguito passo dopo passo. Ma anche nel senso di ‘teoria delle reti’ a cui noi ci siamo ispirati e che riguarda una modalità  di lavoro per noi cruciale. I ragazzi che lavorano per noi, se vanno via da qua, restano nostri gangli di rete e alla fine non fanno altro che rafforzarci. Quando capita, e per fortuna capita spesso che un’azienda ce ne freghi uno, io sono contento perché chi ci lascia ha assunto la nostra filosofia, il nostro modo di lavorare e non diventerà  mai un nostro nemico ma contribuirà  a rendere più spessa e più forte la nostra rete. Io penso che poche aziende come la nostra diano la cura che noi riserviamo ai contatti, al loro aggiornamento, al loro sviluppo. Noi rivendichiamo una visione del lavoro: le informazioni di cui noi veniamo in possesso non sono una nostra esclusiva. Noi, anzi, lavoriamo su un concetto diametralmente opposto. Più condividiamo le nostre informazioni, più diventiamo forti. Che è il contrario di quello che avviene nel giornalismo tradizionale. Questa visione richiede però di essere all’altezza della sfida.


Prima – Non capisco quale sia il vantaggio.
C. Velardi – Glielo ripeto: se tu condividi le informazioni che possiedi, devi sempre averne una in più, devi sempre stare a caccia della prossima, sennò diventi obsoleto.


Prima – Ma devi avere anche il potere e la capacità  di gestire quel patrimonio. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi.
C. Velardi – Lei non mi ha capito: il potere deriva dal fatto che condividi. Questo comporta una continua e quotidiana rieducazione di noi stessi. In qualunque attività  umana tendi a essere un po’ geloso delle cose che sai. Anche nei momenti di debolezza e di difficoltà  bisogna sempre essere capaci di rischiare, di mettere in gioco le informazioni che possiedi. È vero che c’è sempre questo scambio tra il potere e le relazioni ed è più facile condividere quando hai un potere tranquillo, quando stai seduto su un piedistallo. Il bello è farlo quando ti trovi in un momento di debolezza. Lavorare in questo modo ti tiene sempre vivo, è un modo di lavorare divertendosi che è poi la cosa fondamentale. Insisto: se non fai così, avvizzisci.


Prima – Senta Velardi, le teorie sono anche affascinanti ma la pratica dice che lei è uomo di influenza perché ha ricoperto ruoli non banali e spesso decisivi. Per esempio con Massimo D’Alema. Lo so che quando glielo ricordano lei storce la bocca, ma la storia – lo diceva anche quel sant’uomo di Agostino – non la può cambiare nemmeno Dio e quindi quel passato le resta incollato addosso, che le piaccia o meno. Vediamo se riesce a essere sincero: ne ha tratto più vantaggi o più svantaggi?
C. Velardi – Lamento un solo svantaggio e insieme un piccolo rammarico dal punto di vista personale. Quelli che mi conoscono sanno che tutta questa mitologia del piccolo demonio che maneggia le cose del potere è largamente sovradimensionata. Il mio rapporto con il potere si caratterizza sicuramente per il mio narcisismo ma anche per la convinzione che il potere è ridicolo, pensiero che serve al mio equilibrio. Sì, il potere è ridicolo e, più si è consapevoli di questo, più lo si maneggia nella maniera giusta, in modo non ipocrita, irriverente, urticante. Lo so che questo irrita e fa incazzare tutti quelli che sono abituati a fare i baciapile.


Prima – Non è che pensa che sia ridicolo perché, pur avendolo avuto tra le mani, se l’è visto sfumare nello spazio di un mattino?
C. Velardi – Il giorno che è finita l’esperienza di governo sono stato il primo a dire: “D’Ale’, a casa! Non c’è più niente da fare”. Ho salutato i due poliziotti che mi aspettavano sotto casa, sono montato in vespa e con grande umiltà , insieme ad Antonio Napoli e a Massimo Micucci, mi sono messo a fare anticamera presso i potenti a cui andavo a chiedere lavoro.


Prima – Il potere di oggi è più ridicolo di quello di un tempo?
C. Velardi – Penso che il potere abbia regole più o meno eterne ma direi che la destra esercita il potere in maniera un po’ più crassa e volgare anche se, nel momento stesso in cui lo dico, mi rendo conto che questa è la tipica affermazione di uno snobbettino di sinistra. In realtà  la sinistra questo potere lo esercita in maniera un po’ più elegante ma più fastidiosa, più pesante, più triste perché con esso ha un rapporto di sacralità , mentre la destra ha un rapporto più becero e più violento.


Prima – Qual è meglio, secondo lei?
C. Velardi – Sinceramente non lo so.


Prima – Che rapporti ha con D’Alema?
C. Velardi – Zero assoluto. Io non sento e non vedo Massimo D’Alema da mesi e mesi. Se lo incontro, avendo avuto un rapporto di consuetudine, ci scappa la mala parola, ma anche quell’affetto un po’ ruvido…


Prima – Ma questo è successo per volontà  sua, di D’Alema o per un destino naturale?
C. Velardi – Il motivo di sostanza è che oggi penso cose molto diverse da lui proprio sul piano della visione del mondo.

Prima – Cioè?
C. Velardi – Secondo me Massimo D’Alema è il testimone e il protagonista di una sinistra vecchia che ha fatto il suo tempo e che non corrisponde più alle esigenze di oggi. Forse sarò l’unico in questo Paese, ma io ho in mente una sinistra che non corrisponde a nessuno dei protagonisti che sono in campo e non mi rispecchio in nessuno di loro. Tanto meno in Massimo D’Alema. D’Alema, come tutti gli altri leader della sinistra italiana, rappresenta un tempo passato e non è più capace di declinare al futuro.


Prima – Come se la spiega questa inadeguatezza di tutta una classe politica che per una vita intera non ha fatto altro?
C. Velardi – Si tratta di una generazione che ha avuto grandi meriti perché ha affrontato l’Italia del dopo Tangentopoli e il comunismo del dopo Muro, una generazione che ha affrontato un Paese inguaiato dal debito pubblico, che si è accollata il compito di governare l’Italia in una fase difficilissima di transizione, che ha contrastato l’arrivo di un tycoon della forza e dell’impatto di Silvio Berlusconi. Questi ragazzi si sono fatti un mazzo tanto e hanno avuto financo dei meriti ma anche una colpa fondamentale: quella di non essere riusciti a far approdare la sinistra dall’altra parte. Massimo D’Alema, ancora più degli altri, era a pochi passi dalla riva ma non è riuscito a fare il salto. Ripeto: consideriamo che si tratta di una generazione cresciuta con il comunismo nel secolo scorso, ossia un altro mondo.

Prima – Le manca quel mondo?
C. Velardi – La mia generazione ha vissuto dentro tante comunità . Per me la comunità  del Pci era una cosa straordinaria in cui ho trovato moglie e i miei migliori amici. Condividevamo valori e visioni, però scambiavamo questa meravigliosa comunità  per un’ideologia che invece faceva acqua da tutte le parti e che poi è miseramente crollata. E allora, anche se è duro, bisogna fare questa distinzione e dire: ragazzi, io facevo parte di una comunità  eccellente che però apparteneva a un mondo sbagliato. Spesso si chiede a chi ha fatto quest’esperienza di abiurare sia la comunità  che l’ideologia.


Prima – E lei ha abiurato?
C. Velardi – L’ideologia non solo la abiuro, ma la contrasto anche con determinazione e ferocia e nello stesso tempo riconosco quella comunità  che mi ha formato, che mi ha dato tanto in termini umani. Io questa distinzione la faccio mentre non è così per i capi del Pci-Pds-Pd. Non la fa uno come Massimo D’Alema ma nemmeno uno come Walter Veltroni. Loro continuano a pensare – barando con se stessi – che sia possibile riattivare quella comunità  che invece viveva in funzione di quella ideologia, che le due cose non erano separabili. Sono andato fuori tema?


Prima – Niente affatto. Direi anzi che questo spiega bene la sua pulsione per il mondo della lobby dove ha tradotto e aggiornato la sua esperienza. Chi dice che lei è un paraculo ci azzecca solo per approssimazione.
C. Velardi – Quando ho creato questa azienda in cui sono connessi tanti di quei rapporti della mia vita, sono stato oggetto di critiche anche pesanti perché è come se avessi tradito quella comunità  per perseguire i miei interessi personali, senza capire che quella strada che percorrevamo non esiste più, è un feticcio, una cosa finta. Ma poi capisco che possa dare fastidio che uno di loro – perché io ero uno di loro! – ne sia uscito.


Prima – Altroché se ne è uscito. Tanto che ora si occupa pure dell’antico nemico e fa campagna per Renata Polverini. Come ha gestito la spaventosa vicenda delle liste ritardatarie?
C. Velardi – Con rammarico e incazzatura. All’inizio avevo pensato a un itinerario preciso. La Polverini aveva bruciato i venti, trenta punti di scarto di notorietà  rispetto alla Bonino e stava crescendo nei sondaggi. Da tre punti sotto era salita a tre punti sopra. Mi sentivo abbastanza tranquillo e avevo fatto una campagna molto light, ‘con te’… pensavo alla sua trasversalità  capace di parlare con tutti, non ossificata dentro le coalizioni. La vicenda incresciosa delle liste ha comportato un cambio di passo. Ma questo è il bello delle campagne elettorali, in corso d’opera bisogna cambiare strategia.


Prima – Come si è trovato a rapportarsi con un linguaggio così diverso dal suo?
C. Velardi – Con Renata Polverini non ho avuto difficoltà  perché lei è una post e possiede un linguaggio contemporaneo non segnato dall’ideologia. In altri casi invece il problema si è presentato: è vero che il mondo della destra ha un impianto, un sistema valoriale e anche un linguaggio diversi dal mio. Però è anche vero che in quell’universo io ritrovo una cosa che mi appartiene e che è il valore della politica e che tutte le tendenze più ‘nuoviste’ non posseggono.


Prima – Lei ha, per mestiere e abitudine, un rapporto intenso con i media. Come li tratta, cosa ne pensa?
C. Velardi – Il mio rapporto con i media è complesso, complicato e combattuto ma confesso senza alcuna difficoltà  che non ne posso fare a meno. Spesso non mi piace quello che scrivono o di me o di quel che faccio ma lo metto nel conto.


Prima – I media di sinistra in particolare la bastonano. Tanto per non far nomi penso a Repubblica.
C. Velardi – È naturale. Per loro sono un traditore.


Prima – Un traditore e un faccendiere.
C. Velardi – Io ho un fondo – starei per dire una parola grossa – di moralismo perché sono talmente trasparente fino all’esasperazione e poi sono anche talmente orgoglioso che non ammorbidisco mai le mie posizioni. Fondamentalmente penso che l’ipocrisia, la reticenza, la rimozione siano tra le cose più brutte di questo Paese per cui mi metto allo scoperto anche con un gusto narcisistico. Questo a sinistra non è sopportato perché la sinistra, e in particolare quella dei media, è quella del politically correct, che è il peggio del peggio del peggio. Penso al luogocomunismo di cui è infarcita Repubblica nelle titolazioni, nella grammatica che usa, nelle espressioni. Barbapapà  ha il grande merito di aver creato, per dirla con Gramsci, il moderno senso comune. Questo mi dà  un enorme fastidio perché è un concentrato di perbenismo, ipocrisia e snobismo. Tutta roba che non mi piace come io non piaccio a loro.


Prima – Che rapporti societari ha con Il Riformista?
C. Velardi – Nessuno. Ho venduto con mia soddisfazione e ho fatto un po’ di soldi. Soldi che poi ho buttato dentro Sherpa Tv che non è andata bene anche se per me era la più bella di tutte.


Prima – Perché secondo lei una voce come Il Riformista non decolla?
C. Velardi – Intanto un conto era Il Riformista di un tempo e un conto quello di oggi. Quando è nato, Il Riformista era la voce dell’anticonformismo e ha avuto un senso importante. Tuttavia non mi nascondo che oltre a un certo livello di vendite Il Riformista non è arrivato e forse non può arrivare. Perché: a) in Italia un’opinione pubblica riformista è minoritaria; b) un giornale che voglia interpretare una voce fuori dal coro ha bisogno di grandissima qualità  e notevoli risorse. Da questo punto di vista il gioco non vale la candela.


Prima – Vincono solo i giornali faziosi come Il Fatto, Il Giornale e Libero?
C. Velardi – A breve. Io già  vedo Il Fatto un po’ spegnersi. Ha avuto un impatto fenomenale ma dai e dai… Altra cosa è parlare di persone come Vittorio Feltri, capace di interpretare fino in fondo e con efficacia un pezzo di società  italiana: in questo sta la grandezza del personaggio. Il Fatto è invece un fenomeno legato a una stagione che Di Pietro grevemente ha definito “la diarrea politica”. Mi creda: durerà  poco.


Prima – Le pare una buona idea aver abolito i talk show sotto le elezioni?
C. Velardi – Anche se a me non piacciono i talk show e non li vedo mai, mi pare una cosa totalmente insensata. Non li amo perché generano confusione, non aiutano la gente a capire e ognuno di loro è costruito su tesi preconfezionate. Tuttavia non penso che i talk show servano a far vincere le elezioni. Silvio Berlusconi ha vinto quando la Rai stava in mano al centrosinistra e il centrosinistra ha vinto quando la Rai stava in mano a Berlusconi. Chi mi viene ancora a dire che chi ha le televisioni vince le elezioni, dice una cazzata! Punto e basta. Diamo la sensazione di essere un Paese che ha paura delle sue ombre, che non ha la maturità  per dirsi e ascoltare le cose più diverse facendosi la sua idea. Insomma, un Paese triste. Ma non dimentichiamoci che la par condicio è figlia di una certa logica della sinistra che voleva arginare Berlusconi e si è inventata questa mostruosità . Una schifezza.


Prima – Lei è stato anche assessore al Turismo con Bassolino. Pentito?
C. Velardi – No, assolutamente no. Sono andato a Napoli perché mi avevano chiesto il nome di un assessore. Prima feci quello di Lucia Annunziata che fu anche contattata, poi, una mattina mentre facevo jogging, ho pensato: lo voglio fare io. Non mi sono fatto pagare, né avevo macchina con autista, ma ero l’unico a poter circolare per Napoli sommersa dalla monnezza senza essere linciato. Quando però ho capito che prevalevano le logiche politiche su tutto il resto, me ne sono andato.


Prima – Ed è tornato a Palazzo Grazioli.
C. Velardi – Che non è male. Ma sono i miei soci Napoli e Micucci a reggere la baracca. Io faccio un po’ di colore, loro lavorano.


Prima – Progetti futuri?
C. Velardi – Il progetto è quello di immergere totalmente nella rete la nostra attività  professionale mantenendo le relazioni fisiche, il rapporto con le persone. Consideri poi che noi abbiamo formato alcune migliaia di ragazzi e molti di loro lavorano come assistenti di parlamentari o come funzionari di aziende private e pubbliche, un patrimonio notevolissimo.


Prima – Auspica o teme una legge sulla lobby?
C. Velardi – Se è una legge liberale la auspico. Il principio è semplice: si crea un registro dove si dice chi sei e quali interessi difendi. Fine. Chiuso. Che poi è quello che noi di Reti già  facciamo. Di più no. Non vorrei il sindacato o l’ordine dei lobbisti che decide chi può entrare e chi no. No, quello proprio no. Sarebbe un disastro.

Intervista di Daniele Scalise