Non so da quanto tempo lo predico: i curriculum vitae non servono a niente. Da decenni incontro ragazze e ragazzi che cercano fortuna con il famigerato pezzetto di carta in mano, ora in modalità europea, cioè ancora più asettico e inutile. A volte l’ossequiosa presentazione del papiello è uno schermo: per non presentarsi, per non scoprirsi davvero, per non dire nulla di sé, per non mettersi in gioco. Altre volte è un omaggio, tardivo e colpevole, ai propri genitori: guardi che cosa hanno fatto per me, quanti studi, quanti corsi e quanti master, non mi lasci per strada. Oppure un atto di tenero narcisismo: quando ci si mette dentro di tutto, dalle pubblicazioni su sconosciute riviste agli sport e agli hobbies preferiti.
Io provo comprensione e immediato affetto per questi ragazzi, spesso avanti negli anni, alla faticosa ricerca di un lavoro che non c’è. E, di fronte al pezzo di carta esibito, cerco di dire loro che sì, va bene, mi fa piacere che abbiano fatto quelle belle cose scritte su carta, ma che mi interessa altro. Voglio vedere versatilità, apertura mentale, curiosità, determinazione. In una parola: voglio scandagliare, sia pure nei pochi minuti del colloquio di lavoro, la loro umanità. Ora Lazlo Bock, capo delle People Operations (bella definizione, altro che “risorse umane”) di Google, ci dice che i cv vanno buttati al macero. Ehi, Big Brother, sei arrivato dopo di me (peccato che io non guadagni neppure un centesimo di quanto guadagni tu).