Di ritorno dalle Dolomiti e prima di Stromboli, ieri pomeriggio – mentre sto per comprare un bermuda (costo 24€), indumento che indosso fieramente d’estate, a differenza di quel demente che lo paga 250€ e se ne vergogna pure – ricevo una telefonata di Adolfo Pappalardo, che mi propone un’intervista al Mattino sul tema cittadino del momento: il Corno. “Ado’, ti voglio bene, lascia perdere, non ne so niente. Potrei parlarti della povera KJ2… mi sarei immolato per lei, se l’avessi incrociata… di sto Corno non so niente”. Il buon Pappa desiste, con soddisfazione di mia moglie (“Tu non devi mai parlare di Napoli!”). Ma stamattina non posso evitare di colmare il mio preoccupante vuoto cognitivo. Così leggo sul giornale le parole di saggezza di Guido Trombetti, in archivio trovo un’altrettanto sensata intervista di Riccardo Marone, scorro liste di “intellettuali” pro e contro, appelli accorati e sdegnati, sfoghi di congiunti più o meno stretti, e concludo con Cicelyn, che sul Corriere del Mezzogiorno si lancia in una dissertazione senza capo né coda sul tema (Edua’, ti adoro, ma non pretendere troppo dalla tua intelligenza…).
Ancora stordito dallo sforzo intellettuale – ma felice perché ora del Corno so tutto – verso le 7 decido di distendermi con una corsetta: la temperatura è accettabile, ne approfitterò anche per una piccola ricognizione della città ferragostana. Decido di evitare il percorso classico Toledo-lungomare e con colpevole paraculaggine (sono molto fuori forma) mi avvio a prendere la metro per il rione Alto, con l’obiettivo di scendere comodamente a valle (percorso: Cardarelli, Colli Aminei, S.Rocco, bosco di Capodimonte, S.Teresa, Museo, decumano, stazione, Marina e ritorno a Toledo. 13km e un po’, per la precisione). L’attesa (18 minuti) a Dante dei preziosi vagoni è alleviata dall’incontro con un vecchio amico dei tempi politici che furono. Sergio mi racconta del disastro demagistrisiano pur raccontandosi sempre molto de sinistra; dice che le aziende comunali sono delle fogne e i servizi pubblici sono allo stremo ma è contro ogni privatizzazione; sostiene che tutti si imboscano e nessuno lavora ma rivuole l’art.18; conclude che la sinistra – all’epoca – ha buttato il bambino con l’acqua sporca. Ci salutiamo con un abbraccio e un affettuoso disaccordo su tutto, salvo che sulla necessità di una rivoluzione nell’etica individuale. Insomma nei comportamenti, per capirci. Mi dimentico di chiedergli che cosa pensa del Corno. E lui non me ne parla.
Finalmente (sono le 8 passate) la ricognizione del runner comincia (con tutti questi importanti pensieri nella testa…). E l’inizio non è il peggio. Sostengo da tempo che la città di sopra tende a difendersi dal degrado, presidiando il territorio con le proprietà immobiliari acquisite nei decenni passati dalla piccola borghesia impiegatizia. In effetti è così, non solo nel centro del Vomero: anche il rione Alto si presenta con un volto accettabile, a parte le carcasse delle fontane che dovevano abbellire la stazione della Metro, le antiestetiche insegne dei negozi, la desolata piazza del Cardarelli senza un solo filo di verde messo a dimora. Ai Colli Aminei, dove trionfa la proterva illegalità di cento cancelli abusivi che privatizzano spazi pubblici, i marciapiedi non sono percorribili malgrado oggi non ci sia un’anima viva, le poche auto che transitano non si fermano mai (mai) al rosso dei semafori, e il solo (il solo che vedrò lungo tutto il percorso!) bus porta scritto “Fuori servizio”. Mentre la successiva, relativa oasi di decoro del bosco di Capodimonte è macchiata da una distesa di orripilanti nastri che impediscono l’accesso al prato: nel frattempo cinque vigilanti si fanno tranquillamente i cazzi loro all’ingresso di Porta Grande.
Ma è S.Teresa che inaugura il vero inferno cittadino, più orribile perché – verso le 8.30 del 15 agosto – poco popolato. Avviandomi nel decumano, poi verso la stazione e la Marina, attraverso una città spettrale, sventrata, oscena: barbacani datati 1980, muri sbrecciati e monumenti sfregiati, qualche strada appena rifatta e già fuori uso, minuscoli fazzoletti di terreno forse destinati a verde al momento depositi di bottiglie di birra e resti di cibo, materassi buttati a terra – con o senza poveri ospiti – in decine di angoli di strada, altri derelitti che si avviano a vendere in mercatini di fortuna dietro la Ferrovia le miserie raccolte nella monnezza, sedie a sdraio occupate da vecchie obese a presidio di posteggi abusivi. Come abusivi sono manufatti di ogni dimensione: balconi, vani che fuoriescono dalle costruzioni originarie, verande abusive, insegne abusive. Come abusiva e insensata appare l’intera organizzazione del territorio: caotica, ingovernata, del tutto irrazionale. E poi dappertutto sporcizia. Non i cumuli delle foto che hanno fatto epoca, ma una sporcizia diffusa capillarmente. Invincibile, impossibile da contrastare. Perché non solo straborda dai pochi cassonetti comunque strapieni, ma penetra ogni singolo mattone stradale o marciapiede, con carte, vetri, mozziconi e fetenzie di ogni tipo.
Questa è la città che stamattina mi è rimasta impressa negli occhi, e sfido chiunque a negarne la realtà e l’evidenza. Ed è Ferragosto, uno di quei giorni in cui – in fondo – una città dovrebbe presentare il suo volto più pulito, netto, non occupato e nascosto dal brulicare di presenze umane. Come una casa, di cui puoi riconoscere meglio le caratteristiche, le potenzialità e i difetti proprio quando non è abitata. Anche se il venditore di turno ti riempie di chiacchiere, o ti prende per il culo – nella fattispecie – parlando di rivoluzioni in atto e di Corni salvifici e beneauguranti per la città disastrata. E tutti a seguirlo inebetiti, come i poveri, ignari bambinelli nella favola del pifferaio magico.
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Ma quando ti rimetterei a fare la persona seria? Guarda che ormai e’ passato troppo tempo. E ora di rinsavire.