L’opinione quantica e il voto

Venerdì 16 Febbraio 2018. Stamattina trovate su tutti i giornali l’ultima infornata di sondaggi elettorali pubblicabili. Non ci sono più parole per descriverne il carattere sciatto, fuorviante e totalmente ascientifico. Due soli esempi, giusto per archiviare il discorso e andare oltre:

1) tutte le indagini pubblicate sono fatte su base nazionale, senza sondare i candidati nei singoli collegi. Che peseranno, anche se non sappiamo in che misura dato che il sistema elettorale è inedito: ma è certo che, in tante realtà, basterà qualche voto in più o in meno per determinare un’elezione. E, a cascata, per cambiare il risultato dei partiti, che se ne gioveranno o saranno penalizzati nelle percentuali, nella distribuzione dei seggi (e nelle valutazioni del giorno dopo);

2) i sondaggi sono fatti, di norma, su 1000 intervistati (il quotidiano che preferisco, che ha pure un direttore intelligente e competente, oggi ne pubblica uno fatto con 500!). Ora aprite bene le orecchie: per avere 1000 risposte, bisogna intervistare 10mila cittadini, perché in 9 mila si rifiutano di rispondere. Spalmate sui collegi (232 alla Camera, 116 al Senato), le 1000 risposte (sui 10mila sentiti) fanno la stratosferica cifra di 4 elettori a collegio per la Camera e 8 per il Senato. Che attendibilità possono avere simili indagini? Vi è chiaro di che imbrogli stiamo parlando?

A consolazione, va detto che da domani la diffusione dei sondaggi sarà vietata (nella vita io non vieterei mai nulla, ma questa la ritengo una elementare  misura di igiene pubblica). Quindi il marketing si sposterà in rete, dove saremo sommersi da conclavi, corse di cavalli e di auto che mimeranno con scialbi nomi di fantasia la corsa elettorale.

Ho detto marketing, perché solo di questo si tratta. Partiti e media hanno da vendervi un prodotto e cercano di convincervi dicendo (con la forza dei numeri dei sondaggi di cui sopra) che c’è tanta altra gente che si sta orientando a comprare quello giusto. È ampiamente studiato e sperimentato (in letteratura il fenomeno si chiama bandwagon effect) che il consumatore si orienta nella sua scelta sulla scia di quello che fa (o mostra di voler fare) la maggioranza degli altri consumatori: si comporta così per sentito dire, mancanza di conoscenza, pigrizia, conformismo (intendiamoci, in generale non è neppure male che accada: pensate alla difficoltà di dover scegliere qualsivoglia prodotto al supermercato senza ascoltare consigli, senza far leva sulle esperienze di altri, etc…). Per questo motivo alcuni partiti non fanno che ripetere “tutti i sondaggi ci danno in testa”, “siamo il primo partito, la gente è con noi”, mentre gli altri sono costretti a dire “non date retta ai sondaggi, la gente vera che incontriamo dice tutt’altro, etc…”. Come abbiamo visto, quasi sempre hanno ragione questi ultimi: i sondaggi diffondono fake news, ma l’onda del bandwagon può fare danni assai seri a chi non vince prima di tutto nel marketing.

È vero che vi sono altri comportamenti collettivi su cui possono contare coloro che vengono massacrati o oscurati dal marketing dei sondaggi. Dall’effetto underdog (quel comportamento per cui il consumatore/cittadino/elettore tende a diffidare del prodotto pubblicizzato e luccicante, e – ragionando con la sua testa o per banale anticonformismo – sceglie il prodotto alternativo e concorrente), alla spirale del silenzio, nella quale si avvolgono coloro che non hanno forza e coraggio per opporsi pubblicamente all’opinione dominante, e aspettano l’occasione giusta, magari nel segreto delle urne, per dire la loro (il sottoscritto sperava in questo possibile comportamento nel referendum costituzionale, e in effetti la “spirale del silenzio” ci fu, ma a favore del No, che prese il 60% contro il 52/53% dei sondaggi!), fino alla cosiddetta lethargy, in cui sono immersi quelli che a votare generalmente non ci vanno o si risvegliano solo in momenti topici.

Ma gli svantaggiati dai sondaggi possono neutralizzarli o invertirne il segno purché ingaggino battaglia: in caso contrario per loro c’è sempre in agguato il fenomeno più sconcertante e definitivo, quella profezia che si autoavvera, che sarebbe una versione sofisticata della nota sindrome tafazziana o l’inveramento di una classica legge di Murphy: ti affliggi talmente e pubblicamente per la tua condizione che alla fine la sciagura che ti terrorizza si realizza (fischiano le orecchie a qualcuno?).

In sintesi: altro che sondaggi. Le motivazioni che portano un cittadino a votare (o a non votare) sono mille. E altri mille sono i motivi per cui si sceglie nell’urna uno o l’altro dei concorrenti. E spesso hanno a che fare, credetemi, con la sociologia dei comportamenti, la psicologia cognitiva, le neuroscienze più che con la politica. Ma di tutto questo cominceremo a parlare dalla prossima puntata.


Martedì 20 febbraio. Scomparsi finalmente di scena i sondaggi farlocchi, ieri è apparsa sulla Stampa un’indagine più accurata e attendibile (1.500 casi, un buon campione), relativa a come e dove maturano le convinzioni politiche dei cittadini. Le risposte all’interrogativo “attraverso quali canali ti tieni informato e ti formi un’opinione sui temi politici?” sono sorprendenti, nel senso che vanno a sbattere contro luoghi comuni radicati. In sintesi: ci informiamo grazie ad una pluralità di fonti (26,5% Internet, 24,8% Tv, 22,7% quotidiani, 14,9% social networks, e solo per il 5,1% attraverso le relazioni sociali, amicali e parentali); ma le opinioni, quelle che incidono concretamente nelle nostre scelte, ce le formiamo diversamente: resta ampiamente maggioritaria l’influenza degli old media (Tv, giornali, radio), mentre il 14,9% dei social cala al 6,9%, e il peso delle reti sociali cresce fino al 21,1%.

Risultati lontani dalla narrazione che ci viene imposta quotidianamente, secondo la quale saremmo tutti gattini ciechi nelle mani dei padroni del web, malefici produttori di fake news. Non che il tema non esista, ma forse indagini del genere possono aiutare a capire in che direzione mirare per combattere la cattiva informazione.

Andiamo per ordine, ma partendo da lontano. E più precisamente dalla nostra fisiologia, da quella “periodica sospensione della coscienza” comunemente definita sonno, e dal risveglio che segue. Il problema nasce lì, non vi stupite. Perché per 6-8 ore (anche meno per chi ha una certa età) il bombardamento infinito di notizie che subiamo da mille fonti durante la giornata si arresta (almeno così riteniamo, ma non voglio complicare troppo il discorso…).

E quando ci svegliamo, ancora mezzi intontiti, avvertiamo l’esigenza di riprendere il filo del racconto interrotto. È in quel momento che andiamo in cerca di qualcuno che fornisca un ancoraggio (Kahneman) alla nave impazzita delle mille informazioni accumulate il giorno prima e riorienti il nostro viaggio quotidiano nel mondo. E nessun prodotto serve allo scopo meglio di un giornale, ancora oggi unico strumento di informazione in grado di organizzare il mare magnum delle notizie secondo precise gerarchie nelle impaginazioni (lo sapete, per dire, che sono più importanti le pagine dispari che quelle pari? E perché? Perché sono quelle più immediatamente visibili), nella grandezza e posizione dei titoli, e così via. Dai un’occhiata al giornale e capisci dove gira il mondo, azzeri o esalti delle informazioni, ti convinci che certe cose sono importanti e altre insignificanti. Il che non accade in rete – si tratti di social o di siti – dove invece la notizia si fissa con maggiore difficoltà, e solo la quantità di like può supplire alla minore evidenza visiva.

D’altronde, signori, non sarà un caso se continuano a nascere giornali, anche se sono imprese totalmente a perdere. Non vendono più, ma conviene farli perché orientano l’agenda pubblica attraverso il circuito delle rassegne stampa che vanno in tarda serata nelle Tv, di prima mattina in radio e invadono poi scrivanie e computer di ministeri, imprese, Università e ogni centro di potere sia interessato alla diffusione di notizie da cui possa trarre giovamento.

Ma che cosa rende una notizia meritevole di andare in prima pagina? E cioè: chi definisce quella che chiamiamo agenda setting? Più semplice di quanto immaginiamo: è – appunto – la redazione di un giornale, che osserva quello che bolle in pentola lì fuori e decide con criteri più o meno arbitrari la notizia con il giusto potenziale. Su che basi lo faccia, ce l’hanno spiegato l’anno scorso i ricercatori della University of Pennsylvania, che hanno studiato come si attivano le aree del cervello quando dobbiamo promuovere o condividere determinate informazioni. In quei momenti nelle nostre testoline si scatena la competizione tra un’area più legata al ragionamento sulle cose che ci interessano direttamente e un’altra che si sforza di comprendere che cosa può piacere agli altri. È una nobile gara, in cui alla fine prevale sempre la percezione: di noi stessi, di chi vorremmo essere e degli altri. Così lavorano le redazioni quando decidono timoni e menabò: convocano sedute spiritiche che evocano quotidianamente la mitologica opinione pubblica, a partire dalle proprie percezioni, immaginando quelle altrui.

Da quel momento parte il gioco di rimbalzi e flussi comunicativi –  notizie, approfondimenti, dichiarazioni, commenti o aggiornamenti – che scorrono dai giornali ai social network, dal web alle radio e alle televisioni, dai mezzi di informazione agli utenti in uno scambio infinito, generando un enorme volume di informazioni, in grado di muoversi in ogni direzione e di coinvolgere, con impatti non sempre prevedibili, i diversi attori della scena pubblica (redazioni, giornalisti, politici, personaggi pubblici, blogger, influencer, leoni da tastiera e lettori), e che sarà a sua volta organizzato gerarchicamente, il giorno dopo. Di nuovo dai giornali. Dalle prime pagine al web e ritorno. Vorticosamente, la singola informazione si comporta  come se fosse il nucleo denso di un atomo, come ”una palla di cannone sparata contro un foglio di carta velina, e capace di tornare indietro”, per dirla con Ernest Rutheford, padre della fisica nucleare.


Venerdì 23 febbraio. Prima di diventare fluttuante e inafferrabile, l’opinione pubblica italiana era solida e strutturata. Coerente, interpretabile nelle sue dinamiche. Un po’ come la fisica newtoniana prima che la rivoluzione della meccanica quantistica ne sconvolgesse le certezze. Per capire di cosa stiamo parlando, limitandoci all’ambito dei comportamenti elettorali, basta guardare con un minimo di attenzione il grafico sull’affluenza al voto –  per la Camera dei Deputati – nelle elezioni dal 1948 al 2013.

(fonte: Archivio storico elezioni – Ministero dell’Interno)

Scorrete le percentuali dal 1948 al 1976: sono clamorose nella loro fissità. Nell’arco di 28 anni, con un aumento più o meno costante di votanti (tra 1.2/1.9 milioni ad ogni appuntamento) l’affluenza si mantiene in sostanza identica, varia in un range massimo dell’1,6%. In altre parole, una piccolissima quota di italiani non va mai a votare, gli altri ci vanno tutti, sempre; e la fidelizzazione al voto è tale che le percentuali non variano neppure quando, nel 1976, irrompono sulla scena i diciottenni (3.200mila elettori in più). Anche in altri paesi europei (Germania, Francia), dal dopoguerra a metà anni ‘70 le percentuali di votanti si mantengono stabili, sia pure su quote minori e nell’ambito di sistemi diversi. Ma in Italia il fenomeno è impressionante: fotografa una società compatta, che concepisce il voto come un dovere oltre che un diritto imprescindibile, e risponde con assoluta disciplina alla periodica chiamata alle urne. Disciplina legata, peraltro, a forti appartenenze partitiche, la cui offerta è strutturata, salvo momentanee eccezioni, intorno a 7 partiti (DC, PCI, PSI, PSDI, PRI, PLI, MSI) che garantiscono un’adeguata rappresentanza del corpo sociale, sia pure in assenza di possibili alternanze di governo.

Il 1976 è il punto più alto di questo equilibrio (con i due partiti maggiori che raccolgono il 73% dei consensi!) e allo stesso tempo l’inizio della sua fine. Da quel momento il sistema entra lentamente e inesorabilmente in fibrillazione. I votanti cominciano a calare senza sosta, nascono nuovi partiti e movimenti che attraversano come un fiume carsico il comportamento politico e logorano gli assetti dati. Tutte dinamiche che le classi dirigenti italiane non saranno in grado di gestire, fino a crollare, sotto il peso del Muro e della cosiddetta Tangentopoli (e, soprattutto, senza creare nei successivi 25 anni nuovi accettabili equilibri di sistema).

Ma perché da allora è accaduto tutto questo? Semplice. Perché, mentre il ceto politico continuava a guardare il dito delle percentuali di partito, del maquillage delle macchine di potere e cercava di arginare la disaffezione con sempre più improbabili marchingegni elettorali, la luna – la società – si trasformava definitivamente. La vecchia Italia ideologica, fatta di rocciose appartenenze e corporazioni chiuse, si sfarinava. Una parte prendeva la strada della modernità, della fiducia laica e temporanea verso singoli progetti o leader. Ma un’altra, significativa parte restava orfana, e dunque, per sua natura, sensibile a offerte semplificatrici, urlate  o nostalgiche. Che avevano ampi spazi in cui sfondare: quanto più forti erano le precedenti adesioni fideistiche e di bandiera, tanto più massiccia era la fuga progressiva verso i territori della delusione, del disincanto e della protesta. Fino all’approdo di molti sulla grande e comoda spiaggia della cosiddetta antipolitica, come si dice oggi.

La conclusione del ragionamento sembrerebbe semplice, sono tanti i soloni che la predicano da un po’ di tempo: rimettete a posto la politica, e la società tornerà a fare la brava, si rimetterà sui binari della partecipazione consapevole, della discussione sui programmi, del voto intelligente e maturo. Sciocchezze. Perché nel frattempo il Grande Cambiamento – che in Italia ha avuto, certo, delle sue forme specifiche e malate – è avvenuto dappertutto. Globalizzazione, tecnologie e rete hanno squassato i vecchi assetti della politica costruita sugli stati-nazione. E, se altrove le classi dirigenti sembrano a volte rispondere alla  rivoluzione con un pizzico di lungimiranza in più, nessuno al mondo può pensare di affrontare opinioni pubbliche ormai autonome, sganciate da ogni appartenenza, inafferrabili nelle loro dinamiche, con le vecchissime cassette degli attrezzi di cui la politica dispone.

E dunque: per leggere, comprendere e (di conseguenza) intercettare i comportamenti dell’opinione pubblica in chiave politica e di comunicazione, bisogna utilizzare altri strumenti, come hanno fatto Obama e Trump, sfruttando i social network il primo e il microtargeting il secondo. Ma soprattutto bisogna fare i conti con altre culture, come da molto tempo ha capito il marketing commerciale, con l’irruzione delle scienze comportamentali nelle strategie di vendita, che hanno fatto un salto di qualità con l’uso invasivo e microchirurgico che i grandi players della globalizzazione (Google, Facebook, Amazon) fanno dei big data. Linguisti e psicologi (Lakoff, Westen e altri) hanno approfondito il funzionamento della mente politica, alcuni grandi apripista come Barabási e Kahneman ci hanno spiegato il funzionamento delle reti sociali e di quelle neurali. Forse è venuto il momento di chiudere il cerchio, cercando di capire se i comportamenti sociopolitici non si possano legittimamente collocare tra l’infinitamente piccolo delle dinamiche neuronali e l’infinitamente grande dell’universo quantistico. È il percorso di approfondimento che stiamo sviluppando con Alessandro Fiorenza e Luca Grieco, che non hanno alcuna corresponsabilità nell’azzardo della tesi, ma che ringrazio per l’impegno e la disponibilità a seguirmi nel viaggio. 


Martedì 27 febbraio. Per evitare di dire castronerie addentrandomi negli impervi territori della fisica, rubo parole al professor Rovelli: “Heisenberg immagina che gli elettroni non esistano sempre. Esistono solo quando qualcuno li guarda, o meglio, quando interagiscono con qualcosa d’altro. Si materializzano in un luogo, con una probabilità calcolabile, quando sbattono contro qualcosa d’altro. I salti quantici da un’orbita all’altra sono il loro solo modo di essere reali: un elettrone è un insieme di salti da un’interazione all’altra. Quando nessuno lo disturba, non è in alcun luogo preciso. Non è in un luogo… Nella meccanica quantistica nessun oggetto ha una posizione definita, se non quando incoccia contro qualcos’altro”.

È la spiegazione for dummies della folgorante teoria dei quanti che, insieme alla relatività generale, ha rivoluzionato la fisica del Novecento. Una teoria talmente geniale che (con sommo sprezzo del pericolo) mi sento di proporvela per decodificare i movimenti dell’opinione pubblica contemporanea.

Sostituite agli elettroni i poveri umani che siamo e riflettete un attimo. Magari ripensando a quel vecchio amico che avevate perso di vista, reincontrato a distanza di anni: lo avevate lasciato comunista tutto d’un pezzo, vi ha raccontato delle successive adesioni a quattro-cinque partitini di sinistra, e oggi si descrive grillino tendenza Di Battista, ma soprattutto irresistibilmente attratto dal Bikram Yoga. O alla signora intercettata più volte qualche sera fa ad una cena in piedi: l’avete sentita con le vostre orecchie dichiararsi più o meno in contemporanea sostenitrice strenua degli accordi di Parigi sul clima, innamorata persa della Bonino, ben disposta verso Trump, critica su Papa Francesco, vagamente favorevole alla pena di morte in determinate circostanze. E alla fine vi ha detto che non andrà a votare. E poi magari ci andrà. Roba da mal di testa, per chi è abituato a decrittare la realtà attraverso le lenti newtoniane di visioni del mondo rotonde e comportamenti lineari.

Nel mondo post ideologico, delle reti intrusive e pervasive, delle aggregazioni per interessi specifici e passioni temporanee, della comunicazione in tempo reale, della percezione che sconfigge la realtà, l’opinione è mobile, permeabile, contraddittoria, tuttalpiù probabilistica. È silente, non si manifesta se non quando due o più atomi (di opinione) si incrociano. E quando si materializza, può espandersi e compiere (oppure no) il suo salto quantico. Può diventare (oppure no) un pacchetto di energia, una massa critica che si mette in movimento, e aumenta le sue potenzialità, solo se è capace di mutare, ridefinirsi e riorganizzarsi in ogni momento.

Ma come avviene questo incessante processo di cambiamento? Che cosa genera e trasferisce energia? Come ci ricorda il secondo principio della termodinamica, è determinante la cessione di calore. Che dipende dalla velocità di circolazione degli atomi all’interno di un corpo. Le cose fredde sono lente, quelle calde sono veloci. Calore e velocità: altri principi fisici che hanno molto a che fare con le opinioni. Pensateci: le opinioni fredde (razionali, logiche, scientifiche) sono lente; e spesso non arrivano a bersaglio, o ci arrivano nei tempi sbagliati. Se le opinioni riscaldano, producono calore, creano empatia, generano condivisione. E, grazie a questo, circolano, si trasmettono più velocemente.

Potrei proseguire con le similitudini. Naturalmente, però, il problema non è divertirsi a fare ulteriori, suggestivi paralleli, ma capire se e in che misura, a partire dalle acquisizioni della fisica contemporanea, sia possibile prevedere gli spostamenti dell’opinione pubblica. Non fotografare o analizzare ex post, ma prevedere. Cosa che va finanche al di là delle sfide, comunque quantitative, finora lanciate dai big data e dall’A.I. Per farlo, si tratta di prendere di petto il celeberrimo principio di indeterminazione di Heisenberg: ”Non è possibile prevedere dove un elettrone comparirà di nuovo, ma solo calcolare la probabilità che appaia qui o lì”. Una bazzecola, insomma.

Nel frattempo, in attesa che Heisenberg ci guidi e per venire a noi, volete sapere con che probabilità, e per chi, voteranno gli italiani domenica prossima, dalle 7 alle 23? Se a orientare le loro scelte saranno convinzioni o convenienze, pulsioni profonde o sentimenti del momento, o saranno pure casualità, le condizioni del tempo, l’umore del giorno, un imprevisto che decide per ogni singolo individuo? Se si sono formati un’opinione seguendo i talk in Tv, leggendo i giornali o battagliando in Rete? Macerata, che ha aperto le danze elettorali, influirà nelle scelte? Se peseranno il caso De Luca/Fanpage, gli scontrini dei Cinquestelle, i sentimenti che si nutrono per Renzi, i nuovi contratti di Berlusconi?

Non lo sappiamo, amici: questa è la verità, e non lo sapremo fino a spoglio completato. Le bolle comunicative di queste ore (quella consistente pro cinque stelle, quella più contenuta pro Bonino) sono, appunto, bolle. Le ansie di partiti e candidati sono e resteranno quelle di sempre. Le prudenze di giornali e commentatori non saranno mai abbastanza. Ricordate che  sempre quel fetentone di Heisenberg ci dice che perfino “l’atto stesso dell’osservazione altera il comportamento degli oggetti osservati”. E dunque, non sbottate come fece Einstein, in un’interminabile e mitologica discussione tra genialoni dell’epoca. “Dio non gioca a dadi!” disse il più grande di tutti: ma dopo un po’ dovette riconoscere il suo torto. Tranquilli, dunque: domenica si gioca a dadi. Buon fine settimana. E buon voto. O non voto. O quello che volete. E che sarà. Forse.

Martedì 6 marzo 2018. E ora provate a dire che domenica scorsa non si sono espressi come una miriade di quanti, i nostri connazionali. Come vorticosi pacchetti di energia caldi e velocissimi, improvvisamente apparsi sulla scena per produrre il più probabile ma non per questo previsto degli eventi.

Naturalmente che fosse l’evento più probabile ce lo stiamo dicendo ora, soprattutto nella forma dell’hindsight bias, che è quella tendenza a credere di aver saputo prevedere un evento, dopo che l’evento si è manifestato. Da domenica viviamo un po’ tutti del senno di poi, stiamo tutti a precisare ”io l’avevo detto”: ma dobbiamo sapere che il fenomeno è figlio legittimo dello stupore di fronte all’inedito; è una modalità che si attiva per esorcizzare, quando la realtà ti prende alla sprovvista.

Mentre la verità pura e semplice è che nessuno aveva immaginato un risultato di questa potenza, che in un sol colpo ha cambiato la geografia politica del paese, ha azzerato vecchie appartenenze e archiviato intere classi dirigenti. Al più si prevedevano vittorie temperate, sconfitte di misura, aggiustamenti e zerovirgole. Non nella propaganda elettorale, che faceva il suo povero mestiere. Ma nelle nostre teste, che sono settate su equilibri evolutivi che tendono a delimitare avvenimenti, aspettative e preoccupazioni  dentro le zone del possibile. Sogniamo, in fondo, vittorie gestibili; e la stessa sconfitta non la pensiamo mai come un abisso. Invece l’Apocalisse che nessuno annunciava si è mostrata, e ora costringe ognuno di noi a resettarci mentalmente.

Che è, poi, la cosa più complicata (molto complicata, perché siamo figli della nostra storia), ma in questi casi è l’unica da tentare. Quando la realtà ci si squaderna di fronte in maniera inaspettata, la nostra scatola cranica ricorre a mille stratagemmi per non vederla. Per prima cosa il nostro cervello pigro fa ricorso alle esperienze accumulate nel tempo per capire. Ma, come è noto, la memoria inganna: dal passato puoi estrarre indicazioni utili per il futuro solo se contrasti la sua carognesca tendenza fallace. Fallacia che si manifesta  quando selezioni ricostruzioni del passato che confermano le tue convinzioni, anche se oggi sono secondarie o ininfluenti (bias di conferma). Oppure quando cadi nell’errore di mitizzare il passato, e torni ossessivamente su opzioni che hanno funzionato quando la realtà era un’altra (illusione di verità). O, ancora, se insisti nel giocare d’azzardo (gambler’s fallacy), ritenendo impossibile che accada in futuro un evento accaduto più frequentemente del normale in passato. E così via. Non c’è modo di afferrare una nuova realtà se non sottoponi ad una rivisitazione radicale e continua i tuoi atteggiamenti passati e non ti sforzi di vedere sempre i tranelli che ti tendono i maledetti bias.  E’ un lavoro molto difficile, scomodo, duro. Ma alla fine coglierai (forse, in parte, per un periodo limitato) la realtà quantistica in azione solo non crogiolandoti nel passato, anzi scorticandotelo con dolore dalla pelle quanto più ti assale con i suoi fantasmi. E’ l’unico modo per essere davvero vivi e partecipi del grande flusso quantistico.

E quindi, per restare a domenica scorsa: è possibile – per tutti – evitare gli assalti del passato, le brume dell’ideologia, le infatuazioni narcisistiche che impediscono di vedere l’opinione che si materializza (oppure no), va e viene, scompare e riappare a suo piacimento? Certamente non servono (o non bastano) le analisi politiche ex-post di vittorie e sconfitte, le minuziose valutazioni di grafici, numeretti e flussi di voti. Almeno a me – confesso – ormai interessano poco. Più interessante e, forse, proficuo, cercare di capire qualcosa di più prima che la realtà si manifesti. Dunque, al lavoro sul futuro. Strumenti per farlo? Adeguata mole di ricerche e dati, ascolto incessante, intercettazione dei segnali deboli (quando diventano forti la partita è già persa), immaginazione e visione del futuro. Requisiti per essere arruolati nell’esercito quantistico? Onestà intellettuale, modestia, disponibilità a mettersi sempre in discussione, libertà interiore.