A conclusione di una giornata di lavoro milanese, fatta di incontri con manager e imprenditori, raggiungo la mitologica Sesto S. Giovanni per una serata con i militanti del Pd. Anche loro manager di una ditta senza business model, imprenditori di una politica antica che pare non avere più mercato. Li vedo con piacere e affetto (è il mio vecchio mondo, c’è poco da fare), accettando l’invito di una cara amica romana, e cerco di mettere subito in chiaro le cose: al netto del (grande) rispetto con cui bisogna parlare del Pd, per quello che di buono ha combinato e per come la sua classe dirigente ha servito il paese (espressione forte, ma ci sta, se pensiamo allo spettacolo di queste ore…), l’unico modo per risalire la china è essere impietosi con se stessi, non crogiolarsi in nessun modo nel passato, ripensare politiche, metodologie, linguaggi. Tutto. E interrogarsi sulla stessa possibilità che il Pd in quanto tale continui ad avere una funzione, se è vero che il partito, nato “a vocazione maggioritaria”, oggi pascola in un sistema schiettamente proporzionale, stretto tra due populismi arrembanti. E diventa quantomeno più semplice immaginare (e pure con un certo ottimismo) un futuro da terza forza liberale e riformista che non il riaffermarsi come uno dei poli (due) intorno ai quali qualunque sistema tende spontaneamente ad organizzarsi.
Il dibattito che segue (“lo facciamo informale”, ci diciamo: così diventa un casino, e chi scrive lo alimenta da professionista del caos…) è un classico dei classici: si mescolano l’erba che il nuovo sindaco di destra non falcia, le assemblee di una volta alla Falck, gli errori fatti nel quinquiennio. Fino ai tormentoni top, quelli che mi fanno girare i coglioni come null’altro: la fine delle ideologie, i nostri valori, dobbiamo tornare dalla gente. Frasi fatte, luoghi comuni, pannicelli caldi spalmati sui dolori della sconfitta. Non che io abbia cose significative da dire, sia chiaro. Mi do fastidio da solo sentendomi parlare con toni urticanti e provocatori, e mi rendo conto che le mie ricette (parlare ai singoli, darsi un profilo riformista a tutto tondo abbandonando vecchi totem, vivere la nuova parzialità della politica per immergersi nella società vera) sono delle assolute banalità. Parole astratte nel vuoto pneumatico di una comunità che appare, più che depressa, smarrita, senza forze.
E soprattutto senza guida: il vero problema del Pd, edizione maggio 2018, che improvvisamente mi illumina (si fa per dire) a fine serata. Nei tanti, dolenti e appassionati interventi, nessuno ha mai pronunciato il nome di Matteo Renzi. E’ il convitato di pietra dell’incontro. Quando me ne ricordo e sbatto in faccia a tutti questa gigantesca rimozione (“Ma come è possibile, nessuno ne parla, mi dite che ne pensate?”) lo smarrimento aumenta. Non c’è nessuno che non riconosca Renzi come l’unico possibile leader del Pd, non c’è nessuno che scommetta sulla sua rinascita. Eccola, l’attuale verità sul Pd: le chiavi del suo futuro sono nelle mani di Matteo Renzi. Se lui cambia (è possibile, tutti cambiamo nella vita: lo capisca, cazzo!), la comunità del Pd, o quello che sarà, è pronta ad ri-accompagnarlo nel percorso. In caso contrario, la vita naturalmente continuerà, il Pd si estinguerà nei contorcimenti dei mille piccoli capi-bastone. E la storia si ricorderà di Renzi con una infastidita scrollata di spalle.
Penso che sia proprio così, nel PD oggi non è possibile vedere altra guida che Renzi…. che è, purtroppo, e per molte ragioni oggi non spendibile.
Lei dice “se cambia, allora….”, ed è questo che non capisco. Dovrebbe cambiare come, in che modo, politicamente o caratterialmente (posto che questo sia possibile)?
Penso che sia proprio così, nel PD oggi non è possibile vedere altra guida che Renzi…. che è, purtroppo, e per molte ragioni oggi non spendibile.
Lei dice “se cambia, allora….”, ed è questo che non capisco. Dovrebbe cambiare come, in che modo, politicamente o caratterialmente (posto che questo sia possibile)?