Daniela Lepore

Quando ti muore una persona con cui hai cominciato a discutere appassionatamente di politica e di vita che si era poco più che adolescenti, che poi hai incrociato in mille occasioni private e in momenti pubblici importanti, senza mai rinunciare ad un continuo e lieve cazzeggio sulla fallacia degli avvenimenti che si succedevano. Quando ti lascia un’amica con cui ogni periodico incontro napoletano partiva con la fatidica domanda: “Ma insomma, che si può fare in questa maledetta città?”, e si concludeva con un mio “niente”, e un suo “qualcosa” (perché lei voleva sempre fare qualcosa, aveva dentro lo spiritello eterno di una militanza critica e minoritaria, tendenzialmente solitaria). Ecco, quando se ne va una persona come Daniela, è inevitabile che nel ricordo di queste ore io veda scorrere insieme il film della mia esistenza e della sua (e di una generazione, in fondo). In un continuo mescolamento di pubblico e privato, come si diceva una volta.

Per questo mi scuserete se di lei ricordo innanzitutto un momento particolare e iniziatico, per così dire: la sua iscrizione alla organizzazione dei giovani comunisti, datata – se non ricordo male – 1973 o 1974, quando la quindicenne figlia dell’implacabile (ma dolcissimo, in privato) professor Lepore, studentessa alla scuola svizzera, di famiglia vomerese e borghese di solidi principi laici, decide di fare il passo della militanza. E si unisce – con passione civile inesausta, mitigata da una tensione ipercritica che non abbandonerà mai – a ragazze e ragazzi più grandi di lei, che andavano in cerca di improbabili palingenesi. 

Per diversi anni non c’era riunione cui Daniela non partecipasse, con puntualità (svizzera) e rigore partecipativo, sia pure sbuffando nelle retrovie quando gli astanti eccedevano in sermoni ideologici. Parlando poco, ma sempre in maniera affilata e non conformista.

La si poteva definire grosso modo “di sinistra”, a usare le categorie classiche. Ma in realtà lei andava in cerca (diremmo oggi) di progettualità, di vision, e rifiutava d’istinto l’involucro ideologico in cui la sinistra si trovava permanentemente rinchiusa. Una cifra, questa, che Daniela si è portata dietro negli anni successivi,  quando ognuno di noi prese la sua strada, e lei si concentrò sull’Università. Dove – per quel poco che posso capire e sapere – ha fatto un percorso brillante, segnato da un fortissimo rapporto con i suoi studenti, e da una crescente e rocciosa insofferenza verso le burocrazie e i potentati di ogni genere. E comunque crescendo sul piano professionale, fino a maturare una sua originale visione della possibile trasformazione dell’urbanistica (e del mondo), fatta di decisioni partecipate, di democrazia diffusa, di crescita della consapevolezza individuale. 

Verrebbe da dire, senza voler eccedere in retorica, che la militante, l’intellettuale, la professoressa Daniela Lepore, nel mutare impetuoso del tempo e delle cose, ha sempre mantenuto aperto un fortissimo dialogo con quello che di nuovo accadeva nel mondo. Mai (mai, a differenza di tanti di noi) nostalgica dei bei tempi andati, che anzi le procuravano l’orticaria. Sempre scetticamente curiosa, con il suo sorriso aperto e gli occhi brillanti.

Forse per questo ritrovarla, anche dopo anni, era come rivederla dopo un giorno: lei ti si squadernava davanti, ed era sempre la fanciulla beneducata e trascurata conosciuta un tempo, si riprendeva il filo di un discorso come appena interrotto, e non si faceva in tempo a scambiarsi tutti gli inciuci cittadini maturati dall’ultimo incontro. Certo, non so ad altri suoi e miei cari amici, ma a me appariva negli ultimi tempi sempre più sola (confesso che questa era l’impressione che mi rimandava). Forse perché sentiva, in fondo, di essere testimone di una generazione che ha mancato (diciamocelo) la gran parte dei suoi obiettivi.