Di ritorno da una settimana di vacanza all’estero, sto per iniziare le mie ferie di marzo (copyright Giorgio Gori), e non so ancora se fermarmi a Roma o proseguire con mia moglie per Napoli. Se capisco bene, per me entrambe le opzioni sono lecite. A Roma vivo e lavoro durante la settimana: potrei passare dall’ufficio, fare un punto con i colleghi, e mi incuriosisce assaporare l’aria della città, scoprire se l’aggettivo più consumato in queste ore – “spettrale” – corrisponde alla realtà. Ma forse non ha senso fermarsi: in ufficio mi ritroverei da solo, i colleghi potrei tuttalpiù sentirli in call. Spettrale per spettrale, forse meglio vedere cosa succede a Napoli. Dove comunque non potrei incontrare familiari, nipotini e amici, in compenso continuerei la vacanza (quarantennale) con mia moglie.
Ho qualche ora per decidere, prima dell’atterraggio. Così intanto mi interrogo su che cosa – concretamente – farò, da qui ad aprile o a chissà quando. Nulla di diverso – mi dico mentalmente – da quello che ho fatto nella settimana trascorsa: ho corso, ho letto, ho ascoltato musica, sono stato al computer, ho (chiedo scusa) pensato. Che poi è quello che facevo prima della vacanza. E che, in linea di massima, ho fatto negli ultimi decenni. Una sola differenza si annuncia per il prossimo futuro. Ma cruciale.
Nelle pause di studio, lettura, corsa, musica, etc…, la mia attività è sempre consistita nel vedere gente (e fare cose, risparmiatevi ironie morettiane…). Anche solo per poche ore al giorno, perché, svolta sul serio, è un’attività impegnativa e stancante. Ma è stata sempre la mia linfa vitale. Ne ho avuto (ne ho) bisogno per capire dove va il mondo, per soddisfare le mie curiosità, per inventarmi nuove idee, che arrivano solo se e quando con le persone stabilisci una comunicazione vera, un contatto fisico. Se puoi guardare in faccia il tuo interlocutore, il cliente, il collaboratore, per coglierne qualche impercettibile movimento, un segno di interesse, di nervosismo o di stanchezza. Se puoi annusare e gestire, guidare e risolvere conflitti durante una riunione. Se le mille sciocchezze di cui è fatto lo scambio quotidiano in un luogo di lavoro, ti fanno tirare fuori l’idea disruptive, quella che fa la differenza. Ecco, sento che, senza queste possibilità, il mio lavoro può ridursi a poco o niente. A progetti aridi scritti in fotocopia, micidiali conference call con collegamenti malfunzionanti, fogli excel riempiti di impegni burocratici, slides che non prenderanno mai vita. Cose che non sono bravo a fare, e – in sincerità – non mi interessano. Ecco che cosa mi preoccupa delle settimane che verranno.
E dunque ecco la domanda: riuscirò, in queste ferie, a reinventare il mio lavoro? A fare in modo di sostituire alla prossimità dei rapporti con le persone scambi a distanza altrettanto intensi, che insieme producano lavoro, visioni, strategie, arricchimenti professionali e umani? Modificando in profondità il mio modo di lavorare e dando, nel mio piccolissimo, un contributo fattivo e positivo ad un sistema che dalla prova del Coronavirus uscirà diverso e – si spera – migliore?
E mi chiedo anche: avverto solo io questo problema? Cosa ne pensate, voi comunicatori, lobbisti, consulenti strategici o come preferite chiamarvi? Non credete che sia per tutti proprio questo il momento di rivedere strumenti e pratiche di lavoro, di chiamare noi le aziende con cui interloquiamo ad uno sforzo straordinario di innovazione dei processi, delle metodologie, dei rapporti di partnership? O immaginate – colleghi e amici – di aspettare semplicemente che passi la nottata, per poi ricominciare il solito tran tran?
Ecco la sfida che personalmente mi pongo, per le prossime settimane. Che è poi, se ci pensate, la vera e più alta scommessa del cosiddetto smart working. Che non va interpretato come una dura necessità imposta dall’emergenza, da svolgere secondo ritmi e modalità ripetitive e alienanti, ma come la possibilità di sprigionare autonomia, libertà e creatività, anticipando con fantasia e intelligenza la nuova vita che ci aspetta, oltre il virus. Proviamoci un po’ tutti, ragazzi.
Nel frattempo siamo arrivati a Fiumicino, ho accompagnato mia moglie alla stazione, io sono rimasto a Roma, ovviamente in casa (salvo la corsetta mattutina, in una città non propriamente deserta…), in preda a sentimenti oscillanti.
Razionalmente penso con convinzione che sconfiggeremo il nemico tanto prima e meglio, se ci sarà l’impegno di ognuno di noi. Il che significa rigoroso rispetto delle misure di legge, ma anche curiosità, apertura e disponibilità verso i cambiamenti che ci vengono imposti dalle cose. Sarà una considerazione banale, rozzamente olistica, ma mi figuro che andrà tutto bene se prevarrà in ognuno una grande carica positiva, da far vivere nella inedita vita quotidiana di questi giorni.
Nello stesso tempo, non vi nascondo che – almeno in me – la reclusione genera nelle prime ore una sorta di straniamento. Una vaga ma ricorrente sensazione di inutilità, un vuoto che impedisce che si metta in moto la macchina dei soccorsi mentali immaginati (farò questo e quell’altro, sistemerò armadio e quadri, leggerò, vedrò, ascolterò, etc…), e che non viene riempito dalle call che si rincorrono, dal profluvio di mail che annunciano eventi spostati e riprogrammati (oltre che dai Whatsapp scherzosi e ironici su virus e dintorni, di cui confesso di avere piene le palle. Non me ne mandate più, grazie). Per dirla in sintesi: mi impongo di prendere questa maledetta storia con pazienza e disincanto, nella sostanza sono incazzato nero.
Anche perché dal mio ritorno a casa, ieri sera, ho scoperto che Internet gira lento, e da stamattina esce poca acqua dai rubinetti. Il che mi ha stimolato una domanda, forse seria, che vi giro: ma non è che dipende dal fatto che siamo improvvisamente tutti chiusi nelle case, che c’è un problema di distribuzione dei carichi sulle reti, non predisposte ad una emergenza del genere? Risulta agli espertoni? Nel caso, i gestori delle infrastrutture si stanno attrezzando?
Un attimo dopo, per una bizzarra associazione, mi è venuta in mente una fantastica scena di “Ricomincio da tre”, con Massimo Troisi che, reprimendo un furioso attacco di gelosia, chiede placido alla sua ragazza: “Scusa Marta, come si chiama quello che ha inventato la penicillina (absit iniuria verbis)? Stavo nel bagno e non pensavo ad altro…”. E ho concluso che di una connessione più lenta e di un filo d’acqua in meno possiamo fottercene, al momento. Maiora premunt.