Pur oscillando intorno al 20% dell’elettorato o poco più, è la forza centrale del sistema. Ha potenzialità espansive, ma le sfrutta episodicamente, tende a giocare di rimessa. E’ la formazione politica più affidabile, ma anche la più rissosa. La meno ideologica e la più riconoscibile. Fa da repository di un personale spesso competente, ma anche tenacemente attaccato al potere, per questo spesso intrinsecamente conservatore. E’ il PD, signori. Una sorta di reincarnazione della DC – senza le sue solide basi identitarie e la sapienza della gestione – che ha governato per 18 anni su 28, dal 1992 ad oggi, giovandosi di un’inestimabile risorsa esterna: la conventio ad autoexcludendum della destra italiana, maggioritaria tra la gente, politicamente minus habens.
Tra qualche mese, nel prossimo turno amministrativo, questo strano animale rischia di fare cappotto in città cruciali (Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna). Può confermare Milano, se si affiderà a Sala senza troppe storie, consolidando nel secondo quinquennio un’amministrazione non brillante ma rassicurante. A Bologna, evitando il trappolone della classica discussione cifrata tra postcomunisti (“bastardi” o “migliori”, liberal o securitari, con primarie o senza), può trovare un sereno approdo accucciandosi all’ombra dell’ultimo salvatore della patria, al secolo Stefano Bonaccini. Può riprendersi Torino, dopo la scialba sindacatura della Appendino. Ma soprattutto può tornare a governare Roma e Napoli, dove l’ubriacatura populista ha fatto più danni negli anni passati. E dove, non a caso, il partito ha oggi una forma più che mai liquida, per usare un’espressione benevola.
Nelle due città si fanno avanti due personaggi peculiari, più che noti al PD. Al punto che uno ha contributo a fondarlo, per poi autocollocarsi negli anni ai suoi margini. Mentre l’altro è stato eletto nel 2019 al Parlamento europeo con il simbolo di partito, e subito dopo ne ha creato uno nuovo. Ora entrano a piedi uniti nel dibattito interno e decidono di competere, vogliano o no le satrapie locali o nazionali.
Nel vuoto pneumatico che hanno intorno, Carlo Calenda e Antonio Bassolino sono candidati forti. Il primo è stato un bravo ministro, ha energia e competenze da vendere. Non è molto pratico di politica, gigioneggia un po’ troppo sui social, ma non è detto che queste non siano qualità apprezzate per comporre un profilo appealing, anche oltre i confini della ZTL. Il secondo ha la voglia insensata e folle di tornare a guidare una città allo sbando che conosce a menadito. E può essere tradito solo dalla sua esperienza passata, rapito da una sorta di coazione a ripetere scelte politiche, pratiche e linguaggi del tempo che fu, in una realtà radicalmente mutata.
Come si comporterà il PD a Napoli e a Roma di fronte alle novità? Schiererà polli di batteria sui territori per contrastare i due? Cercherà di avvolgerli nelle spire di fumosi patti nazionali con gli alleati di governo? Vedremo. Ma due cose già da ora sono sufficientemente sicure. A conoscerli solo un po’, Calenda e Bassolino non torneranno indietro: il dado è tratto per entrambi. Così come è certo che il PD farà di tutto per creare problemi a tutti e due. Con l’esito possibile di una discussione incattivita e sterile, e probabili sconfitte all’orizzonte.
Ma c’è anche l’ipotesi che il PD si condanni a vincere, come è nella sua natura. Anche se prevedibilmente non potrà intestarsi del tutto la vittoria, proprio come è accaduto in alcune regioni il mese scorso. Sarebbe in fondo la conferma del destino bizzarro di un partito che ha fatto del governo il suo mantra, ma non lo utilizza né per cambiare le cose, né per costruire una sua classe dirigente.