Che le “élites” (virgolette) stiano sui cosiddetti al “popolo” (virgolette) è cosa più che nota. L’inconciliabilità tra i due universi si manifesta nei trend elettorali e nelle propensioni al voto, negli stili di vita, nelle opzioni culturali, nel linguaggio, nei consumi, nell’uso/abuso del politicamente corretto, nel rapporto con il corpo. Distanze anche fisicamente abissali: nella vecchia società le “classi sociali” interloquivano, si fronteggiavano, avevano interesse finanche a mescolarsi; oggi élites e popolo vivono in forme e luoghi sconosciuti gli uni agli altri, e il riconoscimento avviene solo negli specchi deformanti dei social, che alimentano sarcasmi e dileggi, arrampicamenti e invidie sociali. Amplificando e cementando profili antropologici radicalmente diversi.
Il punto è che, nel nuovo rispecchiamento virtuale, anche il popolo è andato sui cosiddetti alle élites. Saltate le vecchie mediazioni culturali (scuola, scienza, religioni, partiti) e la crescita che garantiva ascensore sociale e cooptazioni nel sistema, il popolo ha conquistato grazie alla rete una potente legittimazione, che le élites impaurite, chiuse nelle loro torri eburnee, mettono ormai costantemente in discussione, rivendicando primati fondati sull’antico ordine e finanche sulla superiorità dei loro diritti (compreso – citato sempre più spesso, sia pure per paradosso – quello fondamentale al voto).
Esagero? Può darsi. E sia anche chiaro che, fino a quando il conflitto mortale tra élites e popolo si gioca a testa o croce, io mi sento dalla parte delle élites. Perché, alle strette, preferisco un ordine cadente ad un caos informe e senza prospettive. Ma per quanto possiamo ancora rimanere costretti dentro questa gabbia? Non sarebbe il caso di fare qualcosa di sostanziale per rimettere in moto una nuova, moderna dialettica sociale e culturale?
Prendiamo l’esempio particolarmente calzante, oltre che attualissimo, del Parlamento italiano nella sua XVIII legislatura. Nata con un’alleanza tra i due populismi che si erano combattuti in campagna elettorale, e segnata da successive, abili manovre di palazzo: la prima, che ha frantumato il fronte populista, inoculando nella compagine di governo il virus del partito-cardine del vecchio sistema; la seconda, che intendeva completare l’opera, chiedendo al più autorevole esponente dell’establishment il compito di traghettare – definitivamente? – oltre il populismo la democrazia italiana. Infine morta ieri, con un soprassalto dei populismi di cui sopra, sotto l’egida decisiva di chi in Italia il populismo l’ha creato (Silvio Berlusconi).
Che cosa ci dice questo percorso accidentato, di cui – ancora fino ad ieri mattina, estasiate dal duro discorso di Draghi al Senato – le élites italiane andavano fiere?
Ci dice innanzitutto che la realtà è sempre più forte di qualunque gabbia le si voglia imporre. In Italia il populismo continua ad essere maggioritario perché tutti i tentativi di sconfiggerlo, assorbirlo, metabolizzarlo si sono infranti contro la struttura anchilosata e impaurita di una società che non cresce da trenta anni, hanno incontrato le resistenze conservatrici delle corporazioni, la struttura medioevale della burocrazia pubblica etc… E sono stati sempre processi imposti dall’alto: nei casi migliori astratti e giacobini, più in generale riformisti per finta, più preoccupati di salvaguardare rendite di posizione che di spalancare davvero le porte a coraggiose innovazioni di sistema.
La seconda considerazione da fare riguarda il ruolo soggettivo che i membri delle élites possono o devono svolgere in determinate circostanze. E qui i fari non possono che accendersi su come ha gestito i suoi 18 mesi di governo Mario Draghi, il gelido banchiere di cui – tutti – abbiamo ammirato la sobrietà degli atteggiamenti, la conoscenza dei dossier, la raffinata ironia, l’indubbia autorevolezza internazionale.
Chi scrive ne è stato un grande sostenitore, almeno fino a quando non ha commesso l’errore politico di autocandidarsi alla Presidenza della Repubblica, nel dicembre del 2021. In quella circostanza si è manifestata una debolezza strutturale dell’uomo, incapace di affrontare con umiltà le dinamiche della politica, evidentemente ignaro di quanto siano più sofisticate ed evolute di quelle della finanza. Successivamente alla rielezione di Mattarella, il tecnico Draghi ha continuato a governare bene – con minore energia, un po’ fiaccato dalla sua gaffe quirinalizia – mentre il politico Draghi ha commesso diversi errori, sempre archiviati da lui con supponenza e generosamente fatti passare in cavalleria da media compiacenti. Fino all’incredibile discorso di ieri, segnato da una fastidiosissima arroganza, oltre che infiocchettato da argomenti biecamente protopopulisti (e pensare che, con tipica protervia da élite, ancora oggi c’è chi dice che si è sbagliato a non mandarlo al Quirinale…).
Sarebbe cambiato qualcosa se Draghi avesse affrontato la prova del governo non solo sbandierando la sua competenza ma con umiltà e determinazione politica, senza albagia, ponendosi fino in fondo al servizio del paese come qualificatissimo membro della sua classe dirigente? Magari no, non ce l’avrebbe fatta comunque, ma le élites, nella loro massima espressione, avrebbero mostrato di avere in testa un percorso strategico di rinascita del paese. Non intendeva farlo, tutto questo, Mario Draghi perché non se la sentiva, perché lo riteneva un ruolo non suo? Allora doveva rifiutarlo in partenza. Senza generare l’ennesima illusione nel già risicato e depresso campo di coloro che si battono per la modernizzazione del paese. È un problema di responsabilità quello che pongo, adesso e per il futuro. Élites autoreferenziali e irresponsabili di certo non porteranno l’Italia fuori dalla spirale dei populismi di ieri e – temo – di domani.
Analisi impeccabile che faccio mia in toto. Razionale ma , stavolta, per niente ottimista…e c’amma fa 🙁
…mi pare che cercare il pelo nell’uovo di Draghi sia eccessivo, anche perché se diventa impercorribile anche questa via, non ci resta che il suicidio….io sono pragmatico e vedo il bicchiere Draghi assolutamente strapieno, delle cose da fare, fatte e fatte bene…Velardi fa bene a cercare le virgole messe male…ma mi consola il fatto che nessuno, e tanto meno Velardi, in Italia, ha tutte le virgole e gli accenti messi al posto giusto, ma da sempre, eh, mica da ieri…