Ausilia Veneruso

La foto è del 1999. In una bella casa, affittata per l’estate nel centro di Anacapri, avevamo organizzato (vergogna!) un “white brunch” domenicale: una minchiata concepita con intenzioni ironiche e goliardiche, per fare il verso alle feste – quelle “in” – che impazzavano altrove, tra Tragara e Marina Piccola, e che noi “ciamurri” consideravamo esibizioni sguaiate e volgari. Nella nostra beffarda e innocua hubris, ci sentivamo un polo di attrazione alternativo rispetto all’isola di sotto, dove ci facevamo vanto di non scendere mai, salvo che per passare da Ausilia e Riccardo: unico approdo possibile, oasi di civiltà in un mare magnum di grossolanità.

Loro due salivano raramente ad Anacapri, anche se in quegli anni avevano aperto a via Orlandi una nuova libreria e la presidiavano spesso. Quando si parlava (scherzando ma neppure tanto, sapete come funzionano dalle nostre parti i campanili…) delle diversità delle due realtà isolane, Riccardo difendeva le sue origini ciamurre, Ausilia ci guardava con un pizzico di commiserazione, come a dire “parlate pure voi, ma un bagno alla Fontelina ve lo sognate…”. Finanche quando si cazzeggiava così, Ausilia Veneruso si manifestava tutta intera: con la sua fierezza, il feroce attaccamento alle radici, ma anche con la capacità di smussare gli angoli tirandosi da parte nel momento giusto per evitare polemiche eccessive, sapendo dissimulare le contrarietà con un sorrisino diplomatico che solo gli amici veri potevano intercettare, nel frattempo incamerando giudizi che le restavano scolpiti nella testa e conservava con memoria da elefante.

Da dove nasceva questa sua severità, sia pure vestita di disponibilità e gentilezza? Diciamola tutta: Ausilia era comunista (ovviamente nell’accezione italiana del termine, e su questo non andiamo oltre…). Ed era comunista a Capri, un luogo che i comunisti li ha sempre accolti, riveriti e blanditi. Purché fossero stranieri, potenti, sapessero stare a tavola. E a condizione che poi si togliessero dai coglioni. 

Andava bene che, più di un secolo fa, Lenin venisse due volte a Capri per incontrare Gorkij, giocarci a scacchi e progettare con lui la rivoluzione. Ci stava che Palmiro Togliatti soggiornasse nella meravigliosa casa di Malaparte, fascista eretico convertitosi al comunismo. O che Giancarlo Pajetta trascorresse dai Talamona le sue vacanze, e che Giorgio Napolitano sia sempre stato un elegante e discreto habitué dell’isola. Tutto bene, purché la presenza di queste icone facesse da contorno, si limitasse ad inchinarsi alla magia dell’isola senza pensare minimamente di conquistarla alle magnifiche sorti e progressive del sol dell’avvenire.

Invece Ausilia e Riccardo avevano altro in mente. Giovani di sinistra nei disturbanti anni ‘70, loro volevano cambiare a Capri, non altrove, prima di tutto rinnovando il Pci. Io li incrociai quando fui spedito dalla Federazione del partito di Napoli a mettere ordine nella sezione locale. Cercai di promuovere (come si diceva) il “rinnovamento” facendo capo a loro due, con cui diventammo, mia moglie ed io, amici veri, trascorrendo memorabili serate, prima a discutere del futuro del mondo, poi a mangiare e (soprattutto) a bere. Con Mikla e Riccardo che mantenevano un minimo di contegno, mentre Ausilia ed io ci davamo alla pazza gioia, al “Guarracino” o da “Anema e Core”. Nottate disordinate che si concludevano, dato che non avevamo una lira, nel piccolo studio di Riccardo, su un letto di fortuna rimediato tra libri accatastati.

Ma la storia politica di Riccardo e Ausilia (quante volte ne parlavamo!) non poteva andare troppo lontano. L’isola non era vocata non dico per il socialismo ma neppure per un barlume di politiche sociali, per una distribuzione intelligente delle risorse, per una razionalizzazione delle funzioni pubbliche essenziali. E loro non volevano limitarsi a fare pura testimonianza. Così, tra una battaglia persa e l’altra pure, maturavano l’idea geniale. Se non si può vincere per via politica, bisogna conquistare l’egemonia culturale. Prendere in mano la bandiera dell’isola e raccontarla, darle un’identità storica al di là dei manierismi e della oleografia. Questo fu “La Conchiglia” fin dalla nascita: casa editrice diventata nel tempo marchio riconosciuto e riconoscibile, sofisticato e prezioso. Così i due hanno costruito nei decenni il loro successo e la loro rivincita.

Sì, la parola giusta è “rivincita”. Perché il percorso di Ausilia e Riccardo potrebbe apparire finanche lineare, se si tacesse il racconto privato, che è un intenso, avvincente romanzo, un film che andrebbe solo sceneggiato e prodotto. I due avevano origini “sociali” diverse (cosa che conta in quello che rimane pur sempre un paesello, con le sue angustie e miserie): lei – figlia dell’acquafrescaio che da sempre accoglie i turisti all’uscita della Funicolare – non felicemente sposata, con un figlio, Vincenzo, sul quale trasferiva tutto l’amore del mondo; lui erede di una famiglia importante di albergatori capresi. Io lo vidi nascere il rapporto tra i due, nell’evoluzione dai sogni pubblici al desiderio di felicità privata. E ne ho raccolto testimonianze, nei rari e discretissimi racconti di entrambi. In quarant’anni, forse più, Ausilia e Riccardo hanno combattuto per il loro destino intimo più di quanto hanno dovuto fare per diventare imprenditori di successo. Sempre aperti al mondo, ma pronti a chiudersi nel loro guscio, per proteggere l’amore conquistato con fatica.

Poi, a vittoria realizzata, in un momento che resterà misterioso, Ausilia si è stancata di combattere e ha cominciato a mollare, mostrando progressivi segni di cedimento. Negli ultimi anni passeggiava smarrita sottobraccio a Riccardo, mentre il fuoco che aveva negli occhi nerissimi, nella fisicità mediterranea, nel sorriso luminoso, si spegneva lentamente e inesorabilmente. Così ci ha lasciati qualche giorno fa, e tutti noi ora non possiamo fare altro che abbracciare Riccardo, custode fortunato dei ricordi di una storia bellissima.