Raccontino di fine anno


Le due migranti adolescenti, chiuse e fiere, magre di paura e sottosviluppo, giunsero nella ruggente Capitale europea all’alba del secolo scorso. Egidia e Maria erano sorelle della poverissima provincia di Verona, nate a Cazzano di Tramigna e vissute a Soave, in una terra che cent’anni dopo produrrà ciliegie, olio e ospiterà floride vie del vino, ma all’epoca era ricordata, oltre che per la miseria, solo per una scaramuccia tra austriaci e francesi nell’ultima delle guerre napoleoniche prima del disastro russo. Perso il marito – “di pellagra”, si sussurrerà nelle ricostruzioni familiari – la madre delle ragazze, la mia bisnonna Augusta, non ebbe la forza, più probabilmente i soldi, di imbarcarsi per l’America, come facevano migliaia e migliaia di veneti, e per una serie di casualità sbarcò con le figlie a Napoli. Provetta merlettaia, trovò impiego da Merola, guanteria di lusso di via Toledo; finita la moda dei guanti di pizzo, sarebbe stata liquidata con interi stock di merletti, che vestirono le femmine di famiglia negli anni austeri che seguirono.

Le due toste ragazze si occuparono al Colosimo, famosissimo istituto per ciechi, fino a  diventarne severe istitutrici. Ma non fu mai integrazione piena con la città: le tre donne maturarono il loro giudizio sulla metropoli cosmopolita del Sud al primo impatto. Il dogma “Napoli fa schifo e i napoletani sono tutti fetenti” fu scolpito nella pietra dal giorno dell’arrivo, quando un solerte accompagnatore le raccolse alla stazione portandole nei pressi del Museo Nazionale, dove c’era, e c’è ancora, il noto (per gli indigeni) “palazzo a spuntatore”, al quale si accede da diverse strade, sia dal piano terra che dall’ultimo. L’uomo apparve più che convincente: “Al secondo piano c’è una dignitosa ed economica pensione – disse -, vi precedo per verificare se c’è posto”. Prese cavallerescamente con sé le valigie e naturalmente sparì. Per le tre migranti la vita ricominciò letteralmente da zero.

Il giudizio sui napoletani non cambiò neppure quando Egidia, la maggiore delle due ragazze, subì per anni la corte di un corpulento ferroviere di quindici anni più vecchio, che non piaceva alla madre e alla sorella. Burbero e irruento, grande fan del Giusti, di cui declamava in continuazione il “Vostra Eccellenza, che mi sta in cagnesco”, Enrico Velardi era stato collaboratore saltuario del “Mattino” di Scarfoglio e della Serao sin dalla fondazione, poi per uno stipendio certo era entrato nelle Ferrovie. Quando riuscì a sposare Egidia, superando le resistenze con tigna ossessiva, per lavoro andarono a figliare in giro per la Campania: a Salerno nacque il primo figlio (mio padre), a Caserta un paio, a Napoli gli altri. Sette, tra maschi e femmine, che andavano sfamati insieme agli ospiti immancabili che il “Boss” (così lo chiamavano di nascosto moglie, figli e parenti) raccattava ogni giorno per strada, tornando a casa con grandi borse ripiene di pesce fresco.

Il punto è che, oltre che indubbiamente generoso e saltuariamente iracondo, il Boss era anche un fiero antifascista. Su quale fosse precisamente la sua ideologia si è a lungo discusso in famiglia. Non era comunista, esplicitamente contrario come si mostrava a ogni forma di intruppamento. Forse, anche per l’esperienza sindacale acquisita in una categoria rampante, si sentiva più vicino al socialismo rivoluzionario. A me in fondo è sempre piaciuto figurarmelo, sulla base dei racconti smozzicati che strappavo ai miei, semplicemente come uno spirito libero, una sorta di anarchico individualista. Fatto sta che negli anni Trenta fu cacciato dalle Ferrovie perché rifiutò di prendere la tessera del Fascio. Decisione che gettò la famiglia sul lastrico, ma a lui consentì di tornare al vecchio amore per la carta e i libri. Aprì una tipografia. Il regime continuò a infastidirlo, anche se  le sue “Arti Grafiche Ardenza” editavano generalmente storie minime di provincia e aspiranti poeti dialettali. Ma nessuno lo intercettò quando la sera dell’entrata in guerra si ubriacò pronunciando parole definitive: “Finalmente ce lo siamo tolti dalle palle, il puzzone”. Così come nessuno poté impedirgli, negli anni successivi, di assistere felice come un bambino dal terrazzo di casa alle centinaia di bombardamenti alleati, dopo che aveva spedito il resto della famiglia nei ricoveri.

Finita la guerra, il suo ardore politico cominciò a declinare, insieme alla sua implacabile severità. La tavola si riempiva, oltre che degli ospiti che non mancavano mai, di nipoti che lo intenerirono progressivamente e di cui impediva ogni forma di educazione impartita dai genitori legittimi. Io arrivai tardi, figlio maschio del primogenito rimasto vedovo e risposatosi; ma, prima di morire, il Boss fece in tempo a impormi il nome. Avrei dovuto chiamarmi Enrico come lui, ma decise di no, visto che mi aveva preceduto un fratello morto in fasce. Il nuovo nome, Claudio, fu uno dei suoi omaggi alla romanità, valore che custodiva e riteneva usurpato dall’odiato ex-regime. (In realtà, qualcuno mi ha detto che nella scelta del mio nome ci fu lo zampino di mia nonna, che adorava Claudio Villa, idolo canoro dell’epoca…).

Quanto alla sua eredità politica, fu raccolta dai figli sulla base di una bizzarra divisione sessuale. Due dei maschi ne seguirono blandamente le orme ribelliste e anarcoidi. Mio padre, nuovo pater familias, si iscrisse al Pci, pagandone con diligenza le quote mensili fino alla metà degli anni Sessanta, ed educandomi sulla base di un principio elementare, della cui prima parte resto saldamente convinto: “Il mondo va verso il progresso. E il progresso è a sinistra”, sentenziò grosso modo in epoca Gagarin, forse proprio in occasione del volo nello spazio che impressionò il mondo. Un tranquillo comunista riformista, insomma. Salvo che, quando nel ’72 io mollai l’extraparlamentarismo e mi iscrissi al Grande Partito, lui scelse i nemici del Manifesto, buttando via il suo voto: “E’ per la libertà di Valpreda”, mi disse. Per non incazzarmi troppo, lo presi come un tenero omaggio postumo al padre.

Le donne, invece, dichiararono guerra al mondo del Boss in tutte le sue declinazioni. Belle, solide e altere, costruirono famiglie borghesi, si mostravano infastidite quando in famiglia capitava di parlare di politica, educavano i figli tenendoli lontani da quello che appariva lo spirito del tempo, ironizzavano con una certa preoccupazione (“È come suo nonno…”) sulle mie prime innocue provocazioni (dai capelli lunghi a qualche becera concione contro il capitalismo). Si erano costituite come falange macedone a difesa di un’idea del mondo sobria, concreta, fattiva, lontana mille miglia dallo Sturm und Drang paterno. Civili, laiche, informate, ma sempre legate, per austerità rigorosa, all’origine contadina e nordica delle due migranti, di Egidia e Maria, la prima morta qualche anno dopo il nonno, la seconda rimasta a lungo a vigilare sui tortuosi percorsi di una famiglia che si espandeva nel disordine inevitabile della modernità.

La seconda delle mie zie, la bellissima Olga, andai a trovarla prima che morisse, qualche anno fa, per darle un bacio e raccogliere ultime testimonianze e aneddoti sul Boss, che lei aveva amato e patito. Forse anche per liberarsi della sua oppressione, Olga aveva lasciato un buon lavoro (“la più grande sciocchezza della mia vita”) sposando un bravissimo uomo mai amato, e che sempre il Boss le impedì di lasciare, in omaggio alla morale dell’epoca. Separati in casa per decenni, un giorno Olga disse al marito: “Da questo momento, se ci incontriamo, mi dia del lei”, e questa frase non solo è rimasta scolpita nel lessico familiare a gloria delle donne Velardi, ma ne definisce bene un’idea della vita, che Olga sintetizzò più o meno così, parlando del padre: “Tuo nonno è stato uno sciagurato. Per una tessera mise a rischio la sua famiglia, fece soffrire mia madre e tutti noi. Voleva essere libero, così diceva… che stupido, come se la libertà dipendesse da un pezzo di carta. Se sei libero, lo sei dentro, indipendentemente da una cimice che tieni al bavero della giacca… Tu hai fatto bene a lasciare la politica, sono tutte sciocchezze… e non farti vedere in tv, pensa a lavorare e a crescere bene figli e nipoti. Le cose in cui credi tienile per te, quelle nessuno può rubartele”.