Da tempo tormento chiunque mi capiti a tiro, parlando della forza e della bellezza delle routines (ho finanche impostato il calendario di Google con una scansione oraria quotidiana che punto a rispettare con rigore, non facendomi condizionare dall’esterno: nei limiti del possibile, magari anche un po’ oltre…). Nella nostra civiltà abbiamo invece sempre occultato la gioia di comportamenti consuetudinari: l’accezione stessa del termine routine è, di norma, negativa, richiama ritmi di vita e di attività monotoni, ripetitivi, meccanici, alienanti. Addirittura, a chi è avanti con gli anni, si raccomanda – per evitare cadute di lucidità mentale – di non fare ogni giorno le stesse cose nel medesimo ordine.
Ora, è certamente vero che ogni routine comporta dei rischi; a volte avvertiamo che per alcuni le abitudini quotidiane diventano come un rifugio, servono a rimuovere problemi, a evitare il confronto con la realtà. Ma, come sempre, quello che ci viene in soccorso è la consapevolezza: se lavoriamo per conquistarla (almeno ci sforziamo), ogni routine si può tradurre nella capacità di vivere ogni momento della propria esistenza con pienezza. E anche l’attività apparentemente più banale e ordinaria finiamo per svolgerla con cura, cercando di ottimizzarne le modalità e i tempi di svolgimento, prestando attenzione a ogni singolo gesto che compiamo, la concepiamo insomma come qualcosa di sfidante.
Poi ieri sera ho visto “Perfect days”, meraviglioso film di Wim Wenders, e le mie convinzioni sulle routines si sono rafforzate. Andatelo a vedere, non si può perdere.