Il Primario (un diario archeopolitico)

Il 25 novembre 2012 si tennero le primarie della coalizione “Italia. Bene comune”, per individuare il leader di centro-sinistra da candidare alle elezioni politiche del 2013. Furono promosse dal Partito Democratico, da Sinistra Ecologia Libertà e dal Partito Socialista Italiano e vinte (al secondo turno) da Pierluigi Bersani che sconfisse il giovane, arrembante Matteo Renzi. Io le raccontai in un diario surreale e scomposto, che comunque narra di una fase politica nella quale nel centrosinistra c’era battaglia sulle cose, finanche sui famosi contenuti. Nessuna nostalgia, è un dato. Buona lettura.

Nel bunker

Il Primario nasce 4 metri sottoterra, in un bar di Flaminio dove ci rifugiamo a pranzo, qualcuno mangia salutari verdure cotte e altri si ingozzano di similhamburger in polistirolo. Le primarie sono l’argomento del giorno, e si stabilisce che così sarà per i prossimi 40-50 giorni. Nel bunker ci si divide tra renziani entusiasti, renziani scettici, bersaniani scettici, scettici e basta. Mancano i vendoliani, si citano bonariamente la Puppato e Gozi, una menzione rispettosa per Tabacci. Uno dice: “Se si faranno, ste primarie…”. Un altro ha sentito dire che Renzi non riesce a raccogliere (nell’Assemblea nazionale) le firme necessarie alla candidatura. Una terza ci anticipa il siparietto su “Chi” di Renzi padre e figlio. Si citano sondaggi, si fanno ponderazioni e previsioni: la mia – dipenderà dalla giornata, dall’umore, dall’innata propensione al cazzeggio provocatorio – è che la spinta propulsiva di Renzi si va esaurendo e che la strutturata pesantezza di Bersani lo straccerà. Previsione presa per buona da chi non ha il coraggio di contraddirmi, contrastata da chi ha visto ieri il giovanotto da Fazio: “E’ stato bravissimo, e sta crescendo politicamente”, mi dirà anche una neorenziana a telefono nel pomeriggio.

Dalle chiacchiere all’idea del diario scritto delle primarie il passo è breve. In fondo, anche per un superpigro come me basterà mettere insieme le cazzate che ci scambiamo quotidianamente: solo nell’ultima settimana di primarie e dintorni ho discusso animatamente da Rondolo, davanti al minestrone del martedì (solito schema: renziani entusiasti, renziani scettici, bersaniani scettici, scettici e basta), e sabato a casa Minopoli (dove mancavano i renziani entusiasti, c’erano le altre categorie e un ottimo rigatone alla Norma). Ma la rubrica può nascere – come capisce qualunque giornalista da quattro soldi – solo perché, nel bunker, il brain trust all’amatriciana ha creato il titolo: e ammetterete che “il Primario” (primarie+diario) non è niente male.

Le vite degli altri

Era previsto un avvio dolce. Prima di entrare nel vivo, “il Primario” voleva dedicarsi ad un minimo di analisi dei contesti, ai profili dei candidati, alle ricerche di mercato. Ma stamattina – giusto per bruciare pure sto lavoretto, oltre a tutto il resto – è arrivato come un bulldozer il Grande Distruttore.

Ha parlato con la Stampa (poi magari oggi farà arrivare qualche mezza smentita, condita di considerazioni velenose verso i giornali e verso Federico Geremicca, suo amico di lunga data), e ha detto la qualunque. “Lo sapete che se mi stuzzicano reagisco. E che se c’è da combattere, combatto. Renzi ha sbagliato, e continua a sbagliare. Si farà del male…”. “Sono stato a Matera, c’era il doppio della gente che con Renzi… però i giornali non lo scrivono, rottamare il Pd conviene a molti…”. “Renzi è andato a Sulmona con jet privato…”. “E’ finanziato dall’America, da Paolo Fresco… Che altro dire?”. Per poi concludere: “Non ho il tempo di arrabbiarmi con lui, sono troppo impegnato…”.

Un giorno anche noi troveremo un po’ di tempo per analizzare il linguaggio e le allucinate costruzioni mentali del GD. C’è sempre, da qualche parte, un nemico che trama. Ci sono forze oscure che vogliono la distruzione del partito. E c’è lui, figlio prediletto del medesimo, che lo salva dalle insidie del mondo, sacrificandosi. Nella fattispecie, candidandosi. Perché, certo “stavamo valutando la possibilità di un mio abbandono… ma ora no, bisogna combattere…”.

Quello che è brutto, e assai triste (ma forse anche molto freudiano, disciamo), è che il GD usa per la sua battaglia campale le stesse, schifose armi per anni impugnate contro di lui. Lui inchiodato da una canea di imbecilli al costo delle sue scarpe, lui che cambiò casa perchè quelli che se le comprano a loro insaputa lo accusarono di averne una a prezzi di mercato, lui accusato dai giustizialisti di tutto il mondo per le gite con Tarantini, per la cointestazione e i leasing della barca, oggi rimesta nella stessa spazzatura, rimproverando a Renzi l’uso di un jet privato che si è pagato da solo e i finanziamenti (trasparenti) dichiarati da un manager. E’ una deriva penosa e sconsolante. Il leader del paese normale, ora Presidente del Copasir, ridotto a orecchiare e propalare piccole infamità, come nella DDR de Le vite degli altri.

Ma c’è poi il dato politico (direbbe così anche lui). Bersani appare da qualche giorno in recupero. Ha gestito bene l’Assemblea nazionale, mostrandosi generoso e tranquillo. Comincia a macinare, la sua campagna sta per partire. E Renzi appare un po’ ripetitivo, rischia di perdere l’agenda setting della campagna. L’uscita del GD ridà al giovanotto di Firenze almeno un’altra settimana di centralità. Noi gli consigliamo di non rispondere ton sur ton, ma di andare oltre. Il GD fa del male a se stesso ed alla sua causa da solo, non è necessario amplificarne le gesta.

PS. Come previsto, è arrivata (ore 9.41) la smentita della portavoce del GD.

Spalancate porte e finestre

La decisione che solo i votanti al primo turno potranno votare al secondo – se sarà confermata – è il peggiore avvio di campagna che si possa immaginare. È un messaggio di ripiegamento, di mobilitazione delle appartenenze, di pura chiamata alle armi. Tutto il contrario di quello che si sostiene queste primarie debbano essere: una discussione sul governo del paese, non una conta interna.

Vi sono, innanzitutto, ovvie ragioni di principio per sostenere che uno può scegliere di votare al primo e/o al secondo turno, qualcun altro è influenzato la prima volta e sceglie di votare la volta successiva, o viceversa. Una volta deciso che l’elettore verrà registrato, non se ne possono limitare le opzioni: in qualunque momento avvenga, al primo o al secondo turno, diventerà endorser della causa democratica. Che è la cosa – pare – che sta più a cuore a chi ha promosso la consultazione.

Poi c’è una fondamentale ragione di sostanza. Di per sé, ogni elezione in due turni (interna a un partito, di coalizione o per il governo) prevede la scelta del second best. Al primo turno c’è il più classico dei voti di appartenenza: se poi il mio candidato non passa, la seconda volta voto colui che giudico il meno peggio. Perché? Perché così vuole la logica ferrea della selezione della rappresentanza. Man mano che avanza il processo, si restringono le scelte possibili. Ma non si restringono le platee che scelgono. Al contrario, se si vuole che la decisione finale sia la più condivisa, si fa in modo che la partecipazione sia la più larga possibile. Così avviene, sempre e dovunque.

Questo sul piano generale. Figuriamoci nel caso in questione. Il centrosinistra fa le primarie per stabilire chi dovrà giocarsi la partita per il governo. Al secondo turno delle primarie i due sfidanti (tutti e due, di chiunque si tratterà, siano pure Vendola e Tabacci!) hanno la straordinaria chance di parlare a tutto il paese per conquistarne le simpatie, vincere le primarie e partire in una favorevolissima pole position per vincere le elezioni. Invece che fanno? Si chiudono nella riserva dei propri territori, richiamano alle armi i sostenitori, stipulano accordi con gli apparati dei perdenti per guadagnarne i consensi. Vi pare una cosa logica?

E allora, siccome una logica nelle cose c’è (quasi) sempre, bisogna per forza pensare che dietro questa scelta – se si confermerà – ci sia ancora l’opprimente e gretta cultura politica (di una gran parte) della sinistra italiana. Quella per cui noi siamo quelli bravi, onesti, puri, civili. Siamo meglio degli altri e non vogliamo intrusioni nel nostro campo. Preferiamo essere in pochi e contarci invece di contaminarci con il mondo, invece di vedere le ragioni degli altri, contrastarle se ne siamo capaci, sennò assumerle e farle nostre. E invece di pensare sempre, ma proprio sempre, che chi non la pensa come noi è tendenzialmente un nemico, portatore di qualche complotto, traditore di (non si sa bene quali) principi e ideali. Invece di spalancare porte e finestre per fare entrare aria nuova.

Uno dice: come la fai pesante. Può darsi. Ma non mi spiegherei diversamente una decisione del genere. A meno che non si scenda su un terreno più prosaico e volgare, quello delle convenienze degli apparati e delle piccole e grandi nomenklature.

Non sarà un pranzo di gala

Nel frattempo, mentre sono in corso le discussioni sui massimi sistemi, ai piani bassi ci si imbatte in problematiche assai concrete: soldi, logistica, elenchi di iscritti, regole di ingaggio. Si moltiplicano i jet privati usati da Renzi, che però mette online le sue spese. Vendola paga di persona il biglietto per entrare negli scavi di Ercolano, perché altrimenti gli 800 euro in budget diventerebbero 790 (effettivamente, un po’ pochini). Non si conosce il budget di Bersani, ma i giornali dicono che abbia blindato un’ala del Nazareno per il suo quartier generale (e sempre di risorse, cioè di soldi, si tratta).

E’ da qui che escono norme e circolari cavillose che – obiettivamente – non aiutano. In sostanza, gli stessi che vogliono schedare i votanti delle primarie, sostengono che vada rispettata la privacy degli iscritti al partito. Che – allo stato – non è dato neppure sapere quanti siano, visto che i termini per il tesseramento scadono a fine anno, e solo allora i circoli trasmetteranno il numero dei tesserati agli organismi centrali. Insomma un bel casino. Non per il segretario, che alle primarie ci va di diritto, senza firme di presentazione, ma certamente per i suoi competitors (e qui una prece per la povera Puppato e la sua endorser Concita: non le vediamo ben messe, per la scadenza delle presentazioni di lunedì prossimo).

D’altro canto, quando si parla di soldi, liste, numeri è noto che i partiti vanno sempre in crisi. Sono abituati a non andare tanto per il sottile quando si tratta di impiegare i soldi che ricevono illegalmente (dopo un referendum che glieli negava) dallo Stato. Sparano numeri a casaccio quando fanno manifestazioni (ricordatelo bene: S.Giovanni contiene – con 4 persone a metro quadro stipate in ogni angolo della piazza – al massimo 82mila umani, nell’enorme distesa del circo Massimo ce ne vanno fino a 280mila, e neppure uno in più. Altro che i 2 milioni di Berlusconi, i 3 di Cofferati, etc…). E hanno sempre dato letteralmente i numeri anche in occasione delle primarie finora svolte: 4,3 milioni (Prodi, 2005), 3,5 (Veltroni, 2007), 3,1 (Bersani, 2009). Ma le liste dei votanti non si sono mai viste. Sono rimaste segrete, riservate: è legittimo sospettare che non esistano.

La novità delle primarie 2012 è che stavolta non si fanno per finta. Non devono legittimare ex-post un leader già deciso altrove. Non saranno quindi un pranzo di gala. Stavolta i votanti andranno effettivamente contati, e bisognerà che ci siano tutte le garanzie di serietà del voto. Materia complessa e incandescente, non tanto per chi governa una macchina burocratica ben oliata, ma per chi la vuole scardinare. Fate bene attenzione, giovanotti di belle speranze provenienti da quella cittadina di provincia del centro Italia.

Ma tutto questo Renzi non lo sa

Il giorno della partenza vera della gara (Bersani a Bettola, poi i due che impazzano in tv), in una domenica pomeriggio calda, umida e senza partite, assonnato e ancora immerso nel dopopranzo familiare, mi ritrovo a scrivere un po’ pentito di aver preso l’impegno quotidiano a raccontare questa battaglia fine-mondo.

E’ che da stamattina, in questa benedetta rete che ci avvolge, la guerra è cominciata, e con le caratteristiche di sempre. Potrei affermare “senza esclusioni di colpi” da entrambe le parti, ma mi sentirei un opportunista a dirlo. Perché è vero che Renzi è portatore di un messaggio radicale e a suo modo violento in quanto inappellabile (ve ne dovete andare e basta), ma è altrettanto e forse più vero che dall’altra parte la risposta è il solito, mortifero anatema che viene scagliato verso chi vuole cambiare: sei un traditore, te la intendi con il nemico, sei antropologicamente diverso da noi. Quindi devi perdere, anzi devi morire.

Impressiona – che qualcuno ci faccia caso, santiddio – l’odio viscerale che tanta sinistra manifesta per Renzi. Non è opposizione politica, è qualcosa che viene prima. Nel migliore dei casi è un fastidio culturale (è leggero, ha fatto la Ruota della fortuna, non possiede le nostre “categorie” della politica). Molto più spesso è la convinzione che il giovanotto sia portatore di un’altra visione del mondo e della società.

Ma altra rispetto a che? E’ qui il punto. Rispetto ad una visione del mondo che è un puro feticcio, che ci si porta dietro come coperta di Linus. “Ma allora il partito, le feste, i vecchi compagni, gli operai, il sindacato?”, chiedeva qualche sera fa un’amica di minestrone, scherzando ma non troppo. Fine, amica mia. Benvenuta nel mondo moderno, nel quale tu e tutti noi viviamo (più che dignitosamente molto spesso), ma che ci piace descrivere come la sentina di tutti i mali; come mi si diceva in Rete stamattina, rispondendo ad un mio tweet. Io: “Se gli ideali di gioventù non fossero per fortuna morti, gireremmo in Trabant, avremmo figli vestiti da pionieri, faremmo le code per il pane”. Risposte: “Invece… facciamo le file per l’iPhone”, “In nome della modernità, abbiamo un’etica peggiore”, “Non si possono liquidare così 70 anni di storia del Pci, gli ideali erano sani, la cultura di riferimento era sbagliata…”. E così via.

Certo, non voglio ridicolizzare il tutto. So che ci sono quelli ragionevoli che chiedono dove è il programma, ma sono domande col trucco. Il fiorentino di programma parla da settimane, ci fa su slides che spiegano tutto, mentre Bersani dice Monti e poi oltre Monti e Vendola dice contro Monti e ci fanno i documenti insieme. Ma va tutto bene, Bersani può farlo. Renzi invece deve declamare il programma come il cinese nella barzelletta deve sciorinare l’elenco telefonico.

Poi ci sono quelli ragionevoli che chiedono quali alleanze vuole fare Renzi. Bersani l’alleanza la fa con Vendola e fa intendere (fa intendere!) che la farà con Casini mentre Casini gli dice non se ne parla con Vendola? Niente, il problema è sempre Renzi che di alleanze parla poco.

Allora ditelo, diceva quello. Dite semplicemente che non volete Renzi, che vi sta sui coglioni perché è giovane, sfrontato, arrogante, supponente. E che vi fa un po’ paura, perché promette (manterrà? boh!) di disboscare non tanto l’apparato con la A maiuscola che non esiste più, ma quei pigri, morti luoghi comuni nei quali tanta sinistra si è rifugiata dopo aver smarrito sogni e illusioni.

Ecco, basta così, fine dello sfogo. Che poi la colpa è mia che ci ricasco sempre. A me, davvero, frega poco di Bersani e Renzi. Nella mia visione del mondo c’è da tempo e fondamentalmente la tutela del mio corpo (intesa come salute mentale e fisica), e tuttalpiù un moderato interesse per il rivoluzionario contesto ubiquo in cui viviamo, su cui – ci piaccia o no – non abbiamo possibilità di incidere. Gli stadi intermedi, e la politica che pretende di influire su di essi, li trovo a volte fastidiosi (lo Stato che ci opprime con le tasse, la mia amministrazione comunale che non funziona), ma generalmente irrilevanti. E non penso che se ne possa cambiare la direzione di marcia, al di là di piccoli aggiustamenti. Nel caso, dovuti solo all’azione delle singole persone e non di schieramenti politici (destra, sinistra e minchiate simili).

Quindi, la vis polemica che mi scatta dentro in queste occasioni è frutto di antichi riflessi, e mi basta qualche ora per pentirmene. Come quando mi parte la polemica sulla frase (secondo me indicativa, emblematica) di Bersani (“Fare politica significa restare fedeli agli ideali di gioventù”) e vengo preso a sberleffi come Eduardo che torna dalla guerra in Napoli milionaria, e tutti lo scansano perché vogliono dimenticare. Di averla fatta, di essere stati dalla parte sbagliata, in qualche caso guadagnandoci col mercato nero. Del caffé o delle idee.

Io invece ad una guerra partecipai; l’ho persa e non me ne dimentico. Questa tra Bersani e Renzi non è la mia, e anzi mi fa un po’ sorridere. Così, giusto per dirvelo in questa domenica pomeriggio senza partite.

Nuovismi e vecchismi

Forse è venuto il momento di parlare di vecchio e nuovo, le due categorie che regolano la temperatura politica dell’Italia da un po’ di tempo. Per la precisione dalla cesura traumatica e malgestita del 1992, quando un’intera classe dirigente fu azzerata da un golpe giudiziario. Da allora il sistema politico non è stato in grado di rimettersi in piedi. Avrebbe dovuto trovare una nuova legittimazione, scrivendo una nuova Costituzione (con la Bicamerale? Sì, con la Bicamerale, chi continua a non capirlo è un caprone) e fondando la Seconda Repubblica: un nuovo patto con i cittadini, nuove regole, una nuova rappresentanza fondata su nuovi partiti. Non è stato così, ed è cominciato il ventennale balletto del nuovismo, succedaneo e caricatura del nuovo. Avviato da Occhetto (il nuovo Pci, ridicolo ossimoro morto nel giro di qualche mese), proseguito da Segni, esaltato da Confindustrie, Repubbliche, Alleanze Democratiche, magistrati e starlette, fino a trovare l’apoteosi finale in Berlusconi e nelle sue controfigure di destra e di sinistra. Sempre senza un disegno. Che dico un disegno, senza un pensiero che fosse uno, una sola idea sul futuro di questo paese.

Che nel frattempo, per conto suo, invecchiava tragicamente (i dati, i dati! sulla demografia e sull’obsolescenza di tutto: struttura industriale, formazione, infrastrutture), seduto sugli allori (e sulle pensioni di giovinezza) della sua breve stagione di gloria, conclusa agli inizi degli anni ‘60 (sessanta).

Per queste semplicissime ragioni, e cioè per il mancato rinnovamento “infrastrutturale” di un sistema tecnicamente fallito, si è innescata in Italia la dialettica primordiale e prepolitica della contrapposizione tra “vecchio” e “nuovo”. Ci piace, non ci piace? E’ secondario. C’è. E anche le beneamate primarie vivono quasi esclusivamente di questa dialettica.

C’è il nuovo: ha 37 anni, si muove con agilità (un filino ipercinetico), è sfrontato e arrogante, parla come mangia (a volte direi come si mangiava negli anni ‘80, tipo panna e rucola, insomma; lì mi sembra fermo il suo orizzonte linguistico e semantico. Ma non sottilizziamo), vuole tagliare i rami secchi.

E c’è il vecchio: ha 61 anni (tre più di me, ma chiamatemi vecchio e vi faccio un culo così), si muove come trascinandosi, parla una lingua indefinibile (ma parleranno davvero così i contadini emiliani?), dice che vuole mettere i piedi nelle radici.

(Poi ce n’è anche un altro, che mette insieme il peggio del vecchio e del nuovo: porta l’orecchino e parla come Fogazzaro, difende fabbriche bollite e fa il benecomunista. Ma finirà schiacciato tra i due falsi autentici).

Ha voglia mio fratello (alcuni sanno di chi parlo, lui certamente) a dire che non è così, che da una parte c’è “un riformista consapevole della logica delle compatibilità”, dall’altra uno che “scommette sulle suggestioni”. Le immagini e i resoconti di Bettola dicono tutt’altro.

Foto in bianco e nero della famiglia alla fine degli anni ‘50. Il salotto di una casa con lampadario di cristallo e pasticcini sul tavolo. Colonna sonora con valzer e polka. La briscola. La pompa di benzina. L’officina. “Sapendo dove mettere il cacciavite”. Ha detto proprio così: “il cacciavite”. E la briscola, che non manca mai. Insomma una grottesca parodia del vecchio. Costruita con un’attenzione maniacale, per comunicare polvere, puzza di sigaro, odore di bollito. Il buon tempo antico. Anzi “la malinconia del tempo andato”, recita esplicitamente il titolo della fiction, protagonista il “riformista consapevole”, quello che non vive di “suggestioni”. Ammazza.

E’ una scelta cinica e consapevole, fratello, e magari sarà vincente. Perché parla alla pancia della sinistra italiana, tutta rimpianti, nostalgia e rancori. Quella che “non tradisce gli ideali della gioventù” e che, ancora una volta, viene oggi blandita per essere fottuta domani da un “riformista consapevole” che ammicca ai vecchi militanti “con il basco del Che” e prepara il vestito buono per incontrare Draghi e Schauble. E’ la storia di sempre. Una volta si chiamava doppiezza, e oggi non ne cambierei il nome.

Mi dirai minizzando che Bettola è comunicazione. Certo, esattamente come i format renziani. Niente di più, niente di meno. Comunicazione che serve a raccattare voti lanciando dei messaggi. Il punto è che quelli di ieri sono di uno sconsolante, avvilente “vecchismo”, non preparano alcun “riformismo consapevole”, parlano semplicemente di un’Italia che non c’è più.

Tutto questo per dire, fratello, che il nuovismo continua non piacerci. Ma può esserci di peggio.

Sulle divergenze tra Bersani e D’Alema

Ieri abbiamo appreso che, dopo aver cambiato in corsa le regole delle primarie, Bersani intende far rispettare le regole che presiedono alla ricandidatura dei parlamentari uscenti. C’è qualcosa che non quadra: tanto generoso da aprire la strada a chi (Renzi) vuole mandare a casa lui e i suoi colleghi, quanto inflessibile con i colleghi che Renzi vuole mandare a casa. Tranne che con sé medesimo. Si direbbe un disegno: la rottamazione mi fa schifo – così dice Bersani, non io – ma utilizzo il rottamatore per rottamare.

Già. Ma da quali quarti di nobiltà discende questa tua autorità? Dal fatto che sei l’unico del sinedrio che non ha compiuto le famose tre legislature? Via, ragazzi, se vogliamo essere solo un po’ onesti direi di eliminare dalla discussione questa favoletta. Le tre legislature sono solo il grimaldello per fare fuori una classe dirigente. Renzi lo sostiene con indiscutibile coerenza. E il discorso non lo poggia sull’articolo non so quale dello statuto Pd, ma su un ragionamento più generale: è finita la lunga stagione del centrosinistra che abbiamo conosciuto e della sua classe dirigente. Bisogna aprire un’altra stagione, con persone nuove, nuove idee e programmi. Può piacere oppure no, ma il discorso è questo.

Quale è invece il discorso di Bersani? Dalle radici bisogna costruire la pianta, ha detto a Bettola (poi abbiamo scoperto che è figlio di democristiani, come Renzi). Dobbiamo cambiare senza buttare a mare la nostra storia. Insomma rinnovamento nella continuità, per dirla con Togliatti. Rinnovamento per gli altri, continuità con me, che già fui potente Presidente della Regione Emilia-Romagna, ho fatto il ministro tutte le volte che il centrosinistra ha messo piede a palazzo Chigi (bene? benino, come tanti altri, come Veltroni, la Turco o D’Alema), sono stato incoronato segretario del partito da D’Alema e da tutti quelli che rottamerò, dopo averli ampiamente utilizzati.

Se non fosse che la parola non va usata in politica, direi che questo modo di pensare e di agire è immorale. Bersani ha condiviso tutte, dico tutte le responsabilità del gruppo dirigente della sinistra negli ultimi 30 anni. Vorrei che mi si citasse un solo momento in cui ha preso le distanze da qualcuno o da qualcosa, una sola volta in cui abbia detto: “Non sono d’accordo con questa scelta”. E ora, con furbizia meschina, si serve di Renzi e delle regolette statutarie per rifarsi una verginità?

Difenda i suoi, Bersani. Lo faccia con la rocciosa tenacia che ha mostrato non imponendo le dimissioni a Penati. Oppure dica apertamente che la sua classe dirigente se ne deve andare, ma apra una discussione politica vera nel partito, senza nascondersi dietro commi statutari. Altrimenti sono più che giustificati anche i patetici documenti dei 700 di Balaklava, che difendono D’Alema non comprendendo perché dovrebbe andare via. Nel discorso di Bersani non c’è il superamento di D’Alema, perché non c’è discorso politico. C’è solo il suo siluramento.

E allora, se così stanno le cose, il Primario – che li ha conosciuti tutti, e uno un po’ di più – dice: se si tratta di cambiare, tutti a casa, arrivi Renzi e ci faccia vedere di cosa è capace. Ma se si tratta di scegliere tra Bersani e D’Alema, non ci sono dubbi. Come si dice oggi, D’Alema tuttalavita.

Il peggio e il meglio della sinistra

E ora – ora che si va consumando il finto abbandono dei dioscuri che hanno fatto la storia politico-mediatica della sinistra negli ultimi 20 anni, ora che per Merlo D’Alema diventa l’albatros di Baudelaire e Veltroni torna ad essere il bravo ragazzo di sempre – ora la sinistra italiana può dare il peggio di sé. Esaltandosi nella bufera delle apparenze, mettendo in moto loSturm und Drang delle biografie, dei sogni e dei fallimenti, delle decapitazioni e dei drammi individuali. Sentimenti che sostituiscono la politica che manca e appassionano anche la gente, in fondo. Gente che ha i coglioni pieni, ma che al taglio di due punti dell’Irpef (che tanto mai arriverà) sostituisce la nuova messa in scena, e già la premia nei sondaggi, portando il Pd quasi al 30%.

Insomma, messo da parte l’orrido Cavaliere, la sinistra torna a fare la narrazione. Ed è contenta: l’importante è che le sue gazzette possano sfornare quintalate di aneddoti e il melodramma italiano trovi nuova linfa. Mentre va a farsi fottere la possibilità di una lettura equilibrata (mi viene da dire laica) di quanto sta accadendo.

Prendiamo la questione principale al momento sotto i riflettori: il destino dell’attuale classe dirigente del Pd. Il tema viene declinato banalmente in due modi: rinnovamento nella continuità è il mantra togliattiano di Bersani; rottamazione, come dire tutti a casa, quella di Renzi. Entrambe formulazioni, secondo me, ampiamente al di sotto delle necessità. Una (la rottamazione) per palese approssimazione e rozzezza. L’altra perché figlia altrettanto rozza di una sorta di filosofia della storia della bassa.

Ma nessuno azzarda una seria valutazione d’insieme (non voglio dire storica, per amor di Dio) di questa classe dirigente oggi in discussione. Ieri Mussi ha detto: “La nostra generazione ha dato. E ha fallito”. Questo, per esempio, non è vero. Invece, a mio avviso, la generazione di Bersani, D’Alema, Veltroni, Bassolino, Turco, etc… ha contribuito dignitosamente alla gestione del paese in anni molto difficili. E non era scontato che avvenisse, per un gruppo di provenienza e cultura comunista. Altrove, con la caduta del Muro, i comunisti post e para sono stati messi fuorilegge, in galera, emarginati dai consessi pubblici, ridotti a gruppuscoli insignificanti. In Italia sono arrivati al governo. Per il solido radicamento costruito nel paese da quella “giraffa” che era il Pci, ma anche per il mix di coraggio, spregiudicatezza e cinismo (tutte doti in politica, e lo dico davvero) di chi ha gestito il dopo ‘89, ribrandizzando il marchio e portando la sinistra al potere, sia pure tra molte ambiguità, contorcimenti ideologici, e con un’altalenante cultura di governo. Operazione resa ancora più complessa dalle condizioni di crisi crescente del paese.

Perché dire “la nostra generazione ha fallito”? La vostra (la nostra) generazione ha dato quello che poteva. Ha nuotato nell’eterna transizione del ventennio senza portare il paese “fuori dal guado”, ma garantendone almeno la tenuta dei bilanci. Ha contrastato un fenomeno politico inedito (B.), senza avere gli strumenti culturali per farlo, eppure con alterni successi. E se oggi la sinistra è ancora, di nuovo in condizione di vincere, è anche per merito vostro.

Una visione laica delle cose dovrebbe quindi semplicemente farvi dire: “Ok, abbiamo fatto il possibile. Ora siamo anche abbastanza stanchi. Ci mancano le idee e l’entusiasmo. Lasciamo la mano a chi verrà dopo di noi. Ma siamo moderatamente orgogliosi, quantomeno ci sentiamo di difendere quello che abbiamo fatto, nelle condizioni date”.

Varie ed eventuali

Chi di rottamazione (e di populismo) ferisce… – Bersani manda in giro un video (molto sporco, realistico e credibile) girato a Fiumicino, mentre è in fila per un volo low cost. Domanda: “Scusi, segretario, niente jet privato?”. Risposta, con accentuata cadenza strascicata: “See, jet privato… ancora che non si va a piedi…”. Buon colpo. Però ora, magari, cominciate tutti e due a parlare d’altro.

Il Caymano – Renzi vede un pezzo di comunità finanziaria, e gli rimproverano le origini non proprio limpide di chi lo ha invitato, tal Serra. Da sempre la sinistra sente il bisogno di accreditarsi presso gli interlocutori che contano. Tutti i predecessori (o aspiranti tali) di Renzi lo hanno fatto. Il primo aspetto non entusiasmante della storia è che la sinistra senta sempre questa necessità: il giovanotto, da questo punto di vista, non innova. L’altro è che, però, questi incontri li fanno i politici di tutto il mondo, e nessuno ci ricama sopra in maniera provinciale. Che poi il boxino pepato su Serra lo faccia il Corriere, ci dice una sola cosa: che lì dentro ci deve essere qualche nemico di Serra. Che non sarà meglio di lui, a guardare la governance (non quella giornalistica) di via Solferino.

Primarie napoletane – Si lavora alle regole di partecipazione al voto, non ancora definite ma quasi dal collegio dei garanti. Queste primarie saranno una corsa ad ostacoli, tra iscrizioni, firme, giuramenti di fedeltà alla causa. Ma c’è una norma che colpisce in particolare. Al secondo turno, il 2 dicembre (che si terrà nel caso in cui nessun candidato superasse il 50%) l’elettore potrà votare solo se sarà «provata l’impossibilità» a registrarsi entro il 25 novembre. Che cosa vuol dire “provata l’impossibilità”? A chi va provata? E come? Con argomenti (“Avevo la febbre”)? Con prove (“Ecco il certificato medico”)? Con testimoni (facendosi accompagnare dal medico)? Questa follia, sappiatelo, può far deflagrare le primarie. Poi non venite a dirmi che non ve l’avevo detto.

D’Alemeide – Ci ricascherà, siatene certi: quando va in battaglia, l’uomo non ha freni, non riesce a tacere. E’ il bello del personaggio: la sua sincerità, la passione che mette nelle cose che fa si riversa integralmente anche nei rapporti con le persone, con i suoi compagni d’arme e con i suoi avversari. I quali (compagni e avversari) non vedono l’ora di spiattellare ai giornali le sue battute salaci e i commenti politicamente scorretti. Prevedo che ci sarà qualche altro “incidente” come quello capitato con la Stampa giorni fa, già oggi ci siamo andati vicini. Poi non venite a dirmi che non ve l’avevo detto.

La questione morale

Andiamo al regolamento, diceva il notaio. Certo, potendo. Ma è da un’ora (domenica 21 ottobre, dalle 10.30 alle 11.30. Correggo: 1 ora e mezza, alla fine del post) che clicco www.primarieitaliabenecomune.it senza risultati: nel sito non si entra. Quindi, per discettare di regole, devo prendere per buoni i resoconti delle gazzette, oltre che le puntigliose osservazioni di Dani. Ah, no, ecco. Finalmente trovo il regolamento sul Post. Grazie Luca.

Lungo, è lungo: 16 articoli per complessivi 93 commi, in gran parte dedicati alla governance di questa macchina barocca, una specie di mostruosa matrioska. C’è il collegio dei garanti che figlia un coordinamento nazionale, che nomina a sua volta coordinamenti regionali (incaricati anche delle attività di “propaganda”, c’è proprio scritto così) e provinciali, i quali nominano gli uffici elettorali, i Presidenti di seggio, gli scrutatori.

Ci vogliono ben 8 commi per individuare gli elettori, come è giusto che sia: si vota a 18 anni, nella propria sezione elettorale, e così via. Poi, al comma 3 c’è la clausola della preventiva sottoscrizione dell’Appello di sostegno alla coalizione di centrosinistra. E al comma 7 si specifica che “non sono ammessi al voto per le primarie coloro che non abbiano sottoscritto il pubblico Appello e la Carta di intenti della Coalizione di centro sinistra “Italia Bene Comune” o coloro che svolgano attività politica in contrasto con la Coalizione di centro sinistra “Italia Bene Comune”.

Traduciamo in italiano corrente. I due commi chiedono l’assunzione di un impegno preventivo a sostenere il centrosinistra alle prossime elezioni. Purchessia. In versione Vendola, Renzi o Bersani. In alleanza con i moderati. In versione antieuropea. Con Monti, oltre Monti, o contro Monti. Fa lo stesso. L’importante è sostenere il centrosinistra a tornare al potere. Con una firma, solo con una firma.

E, in fondo, che vuoi che sia una firma, è solo un “impegno morale”. Tanto, anche se sottoscrivi l’Appello, nessuno poi verrà a spiarti nella cabina elettorale, quando voterai Storace o scriverai “andate tutti a cagare”. Come tutti gli impegni che si prendono in questo cazzo di paese, potrai tranquillamente aggirarlo. Quindi non farti tanti problemi, riempi l’ennesima scartoffia inutile, e tutti si metteranno l’anima in pace: abbiamo le regole e possiamo fottercene. Che vuoi che sia un “impegno morale” in Italia?

Ecco, questi commi del regolamento (quelli cruciali, che determineranno la partecipazione e il risultato delle primarie) sono una perfetta fotografia del nostro peggio. Lo Stato (l’istituzione, l’ufficio, il partito, la burocrazia) impone con ottusità delle regole prescrittive, occhiute, insensate. Ma sapendo che non potranno essere applicate, e istigando quindi il cittadino a trasgredirle. Così il cittadino viene addestrato scientificamente dallo Stato stesso (istituzione, partito, ufficio, burocrazia, etc…) alla deresponsabilizzazione, all’inganno, alla frode.

Io non voglio frodare nessuno. E quindi non voterò alle primarie. Lo farei se fossi libero – dopo anni di non voto – di scegliere alle elezioni chi preferisco. Senza prendere ora, con una firma, un impegno che non sarei in condizione di mantenere, se le primarie avessero un esito per me non auspicabile. E’ proprio una questione morale.

Al voto, al voto

Ricevo e pubblico (pronto a farlo sempre, con chi scrive. Anche per risparmiare un po’ di lavoro al Primario):

Gentile Primario,

le regole delle primarie sono confuse e restrittive. Ma non andare a votare significa solo dare ragione a chi non vuole il cambiamento, della sinistra e del paese. Bisogna fare l’opposto, e allargare la partecipazione. Anzi, il Pd tutto dovrebbe darsi l’obiettivo e l’impegno di far votare più elettori che nelle primarie precedenti. Avere, per esempio, 5 milioni di partecipanti sarebbe una prima grande vittoria. Si creerebbero le premesse di una vittoria elettorale e, contemporaneamente, si contribuirebbe a risanare la politica agli occhi dei cittadini. Per questo bisogna subito dire basta ai trucchi e alle limitazioni del voto.

A questo fine, propongo al Collegio dei garanti delle primarie le seguenti, concrete correzioni:

1) devono votare i sedicenni, come rivendicano anche i Giovani democratici, o almeno i giovani che compiranno i 18 anni entro la fine naturale della legislatura. Non si capisce il perchè di una esclusione che suona sfiducia verso i nuovi elettori e le generazioni di cui si sta decidendo il futuro;

2) l’iscrizione all’albo elettorale deve poter avvenire al momento del voto, come è avvenuto in passato, e prima di allora deve poter avvenire anche on line, attraverso l’invio di una fotocopia del documento o del codice fiscale da verificare al momento del voto. Come avviene ormai per tutte le certificazioni e i contratti. Al seggio si faranno tutte le verifiche;

3) deve essere consentito il voto fuori sede, attraverso l’annotazione del nome e del luogo d’origine dell’elettore, immediatamente registrato in un albo elettronico apposito di elettori fuori sede. Ciò al fine di accertare subito eventuali duplicazioni;

4) non essendoci ancora una coalizione definita e puntando la stessa Carta di intenti ad allargare il centro sinistra anche a nuove forze, la firma che impegna l’elettore a esprimersi su una coalizione ancora non definita e non ha ancora votato un programma, appare una limitazione preventiva del diritto ad esprimersi. Nel voto è l’elettore che condiziona l’eletto, non viceversa. E’ giusto sottoporre il documento della carta di intenti agli elettori, ma nè questo, nè la liberatoria dalla privacy debbono essere obbligatorie. Un albo elettorale non è un elenco del telefono o una lista commerciale;

5) l’iscrizione al doppio turno deve essere possibile anche per chi non ha votato al primo: il dibattito delle primarie deve servire ad allargare la partecipazione. Come è avvenuto in Francia, come avviene nelle normali elezioni amministrative a doppio turno. Il voto è segreto e libero, e tale deve rimanere. Non c’è tribunale che possa limitare la partecipazione nelle singole fasi;

6) poichè si è voluto stabilire un tetto di spesa per le primarie, si deve chiarire se in tale tetto rientrano o meno l’organizzazione di manifestazioni o sostegni provenienti da altre organizzazioni, partiti, sindacati, fondazioni o associazioni.

Cordiali saluti

Uno speranzoso elettore del centrosinistra

Non è un paese per vecchi

Reduce da una serata piacevole con amici, qualche bicchiere di vino in più e una nottata difficile, leggo il pezzo della Spinelli su Repubblica e la giornata comincia male. Al mal di testa si aggiunge un po’ di tristezza per l’arroganza e la malafede della signora, che cecchina il giovanotto di Firenze in una escalation di violenza verbale incartata in parole difficili.

Abbonda come sempre in citazioni, la Spinelli – Rimbaud e la Bruntland, Buzzati e Girard – ma potrebbe risparmiarcele, perché la sua tesi va oltre la banalità: la rottamazione è “degradazione della persona ad oggetto servibile” (boh); il termine è figlio della rivoluzione “non solo politica, ma linguistica e di stile” di Berlusconi; anzi che dico Berlusconi, la rottamazione discende direttamente dal lessico nazista: Entrümpelung, repulisti, sgombero. E così il gioco è fatto: in quattro e quattr’otto Renzi diventa un nipotino di Goebbels.

Ora, il problema non è la Spinelli, che da anni ci intorcina i coglioni con la sua insopportabile spocchia. E neppure la contesa tra Bersani e Renzi, che già si sta spompando un po’, tra ricorsi legulei e nuovi e poco credibili staff.

Il problema è che in Italia non si riesce proprio a discutere delle cose con misura, onestà e senso della realtà. Non appena un tema emerge all’attenzione dell’opinione pubblica, invece di cercarne le ragioni profonde, il nucleo di verità che sempre contiene, facciamo il contrario. Lo estremizziamo per esorcizzarlo, per rimanere attaccati alle nostre comode convinzioni e convinte comodità. Progressivamente piegando i dati della realtà alle nostre esigenze, spostando il problema dall’oggetto al mondo dei principi prima, delle ideologie e dei fantasmi un attimo dopo.

E più si va avanti, più lo scontro diventa belluino, fazioso. Individuiamo il nemico, che deve essere assoluto. Lo demonizziamo per essere confermati nelle nostre umanamente flebili ragioni. Ne deformiamo i caratteri, le istanze, le proposte. Sempre e solo per restare immoti, in questo paese che ha ormai perso finanche la curiosità.

Così – tornando alla Spinelli – finisce che, contravvenendo a ragionevolezza e buonsenso, il problema italiano si rovescia clamorosamente: non è vero che siamo un paese vecchio, con la classe dirigente più vecchia del mondo, anchilosato nelle sue strutture, nella sua burocrazia, privo di ascensori sociali, che arretra da 25 anni in tutte le classifiche. No, è vero il contrario. Ad essere bistrattati sono i vecchi. Ma non – sia chiaro – i pensionati al minimo, gli anziani soli delle periferie. No, per la Spinelli gli emarginati sono – o sono stati – Bobbio, Montanelli, Levi Montalcini (e magari Scalfari, e in fondo io, è come se dicesse la signora). Tutto un mare di chiacchiere, solo per abbattere un incauto giovanotto che vuole farsi strada e – forse, ma manco ci credo più, ormai – svecchiare un po’ questo povero paese. Renzi, la personificazione del male. Ricordate Anton Chigurh, lo spietato killer dei fratelli Coen?

Uno dice: non bere troppo. Ma non erano più di tre bicchieri. Allora non leggere più la Spinelli. Sì, giuro, è l’ultima volta.

Con quella faccia un po’ così

Però famo a capisse, Matteuccio mio. E nostro. Perché tu sai bene quante speranze hai messo in moto, il giorno in cui sei partito con il benedetto camper. Teatri pieni, facce contente, messaggi chiari. E un clima nuovo che si diffondeva, palpabile. Fuori soprattutto, tra la gente che mi ostino a chiamare normale. “Oh, ieri a calcetto: su 10, 8 votano Renzi”. “Sì, ma lo votano davvero?”. “Certo, hanno detto che ci vanno, con le regole folli e tutto”. “Va be’, ma sarà gente che fa politica…”. “Nooo. Come dici tu, sono persone normali, che hanno votato qualche volta a sinistra, ma forse pure a destra, mo’ non andrebbero solo perché gli fa schifo Grillo…”. E l’entusiasmo che cresceva, mentre si faceva strada uno strano smarrimento. Come un senso di vuoto. Ma vuoi vedere che stavolta può veramente cambiare qualcosa?

Poi quelli hanno capito, sono lenti ma non scemi. E hanno cominciato a macinare. Rottamazione? E’ una brutta parola, ma non ci spaventa. Così hanno preso i due galletti più pregiati del pollaio e te li hanno sacrificati in un battibaleno (a dimostrazione finale della fondatezza della teoria del gene egoista: il sacrificio serve a meglio perpetuare la specie). E ora, giovanotto? Fine della rottamazione, venga avanti con il programma, candidato Renzi, con quella sua camicia bianca immacolata e quella faccia da impunito. Tu gliel’hai recitato a menadito, e loro: guarda un po’, viene dalle Cayman. Tu hai risposto Mps, ma balbettando.

Poi sei andato a sbattere sulla storia delle regole. Fanno schifo, certo. Ma o si dice e si fa un casino, oppure si fa finta di niente. Le mezze strade, i mugugni, i comunicati, i ricorsi al Garante sono cose da vecchia Italia. Cose da vecchia Dc. E Soro sarà pure un vecchio Dc, ma lì non ce lo hai messo tu.

Infine è arrivato quello di Arcore, che deve dimostrare non a te ma a Gori di essere sempre il più bravo. E ti ha saccheggiato l’agenda, piazzandoti le sue primarie il 16 dicembre. Vere o finte, ci saranno. E un po’ di tuoi potenziali elettori si prenderanno lo sfizio di andare lì a prendersi l’inquadratura nei Tg.

Così finisce che al momento, Matteuccio, non sei messo benissimo. Tu questo lo sai, e dici che ci sarà un colpo d’ala, “dopo la Leopolda abbiamo un paio di sorprese che ci giocheremo, e sono convinto che faremo il botto”. Ma non è questione di colpi d’ala e di inventarsi cose. E’ che ci vogliono due palle così, giovanotto. Il cambiamento è parola grossa, impegnativa. Da 30 anni, ogni tanto, arriva qualcuno e la urla ai quattro venti. Ma più è urlata, più si spegne dopo un po’, lasciando un’eco amara e rancorosa. Tu sei ancora in tempo per strutturarla, per darle una forma piena, solida, per dare una corposa credibilità al tuo disegno. Non per conquistare uno squallido 40%, da fare valere nei giochi interni, per i balletti delle candidature e di nuovi apparati.

Altrimenti lasciaci in pace. Lasciaci tornare ai nostri temporali, ai nostri giorni tutti uguali, diceva un grande.

La gran bonaccia di Bettola

Un signore che si chiama Umberto Contarello ha scritto sulla sua bacheca di Fb un post interessante. Glielo rubo e lo commento.

Voi, cari amici bersaniani, non tutti, ma molti, nel profondo del cuore, fate il seguente errore. Voi dite Bersani e pensate Pci. Voi avete cancellato completamente il principio di realtà e gli ultimi quindici anni, che si chiama Pd. Voi dite Pd, ma dite Pci, perchè Bersani è tornato dal passato, con questa missione salvifica. Dire, ragazzi, tranquilli, li abbiamo fatti giocare, adesso torniamo a fare le cose come sappiamo farle noi, come disse il povero Tortora, quando tornò a Portobello dopo l’infamità subita, “dove eravamo rimasti?” Questo, io lo so, io vi sento, sento come fremono le valvole aortiche quando vi racconta la favola delle radici, sono nei vostri cervelli, arriva assordante quel finalmente siamo tornati a casa, la conosco questa felicità impura della parola che conferma, che vi conferma, che vi dà riparo e calduccio. E’ lui, guardatelo, amici, il vero uomo della Provvidenza, veste le camice di popeline e odora di Linetti, ha le mani grandi dei padri contadini, è tornata la lega delle Cooperative, è tornata la bellezza nascosta del fedele funzionario. E’ tornato per ripristinare una ortodossia morale, civile, uno stile, una storia, scusate una Storia, come la chiamate voi ancora in preda all’onnipotenza del fare la grande storia, a difendere questa Storia dall’incubo orrendo che si possa fratturare come una tibia, un metatarso, perchè si possa, come dite voi, “trasformare”, che sia parola maledetta da dio e dagli uomini, perchè blasfema nella sua arroganza di immaginare il continuo cambiare forma senza lutti, senza buchi, senza tombe, senza funerali. Per questo, essendo uomo della Provvidenza e Custode, non ha alcuna funzione politica razionale, ma un destino più alto, quello di officiare un rito catacombale. Si, catacombale, perchè il rito del Pci che non c’è più si officia nei sotterranei del Pd, la chiesa reggente, pubblica, con numeri civici e scrivanie, criticabile, storta come sono le cose degli uomini. Voi, cari amici, non votate un candidato, ma un tempo. Si dà il caso che il tempo scorra oltre la nostra volontà, e per questo, non è, a tutt’oggi, candidabile”.

Contarello ha ragione. Almeno nel mondo virtuale che frequentiamo – quello dei blog e di Twitter , dei gruppi e delle bacheche Fb – questo profumo antico si sente. E Bersani lo alimenta e lo diffonde. Richiama la fedeltà agli ideali della gioventù, mette in scena la simbologia della operosa provincia emiliana, richiama un mitologico e polveroso ordine del buon senso. Fino alla definizione di “usato sicuro” che non teme di autoattribuirsi.

Il punto è che però il suo calcolo forse non è sbagliato, per due motivi sostanziali. Il primo è che molti italiani delle primarie (la maggioranza?) vanno in cerca di un approdo politico non stressante. Non hanno spazio mentale per ulteriori ricerche. Ne hanno sprecato in gioventù, poi hanno piegato più volte le loro convinzioni alla realtà discordante, ora vogliono destinare le loro ultime energie all’ormeggio – direbbe oggi Fossati, a 55 anni da Calvino – in una baia senza vento: come accade con “un grande amore al suo finale”, da potere “pensare senza affanni”, quando “le più grosse ferite non riescono più a fare male”.

Il secondo motivo è che anche l’Italia (la maggioranza?) è alla ricerca di un approdo tranquillo. Si potrà concedere qualche ultima strambata, anche violenta, con Berlusconi e Grillo, poi prevarrà la voglia di terraferma, o di qualcosa che le rassomigli. Il paese malato non vuole affrontare il suo cancro, ma ammette di avere bisogno di assistenza: è plausibile che si affidi a chi gli propone una cura accettabile e a basso costo. Niente che vada alla radice: né tagli alla spesa pubblica, né fiato al mercato, né riforme radicali del lavoro. Magari di tutto un po’, ma con misura, equilibrio, ragionevolezza, parole assennate. Quello che ci vuole per un malato che rimuove la sua condizione, e preferisce una lenta, dolce gestione del male.

Le due spinte possono incontrarsi. Hanno origini e motivazioni diverse, ma possono convergere, in quanto figlie di rimozioni parallele.

Sotto le primarie niente

Quando, parlando delle elezioni siciliane, Bersani afferma: “Per noi sono risultati storici, dal dopoguerra ad oggi non siamo mai stati realmente competitivi”, esulta, come è evidente, da segretario del Pci (Partito Comunista Italiano): una gaffe minore ma sintomatica, riflesso pavloviano del suo unico universo di riferimento. Quando Renzi gli risponde con la pappardella: “La tradizione cattolico-democratica è linfa vitale per il Pd bla bla” usa cinicamente la gaffe di Bersani per raccattare qualche simpatia tra i vecchi notabili democristiani. Entrambi con la testa girata all’indietro: uno perché non può posizionarsela diversamente, l’altro per pure esigenze di marketing.

Quando devono parlare di alleanze, uno è necessitato ad arrampicarsi sugli specchi. Il redivivo Vendola gli sta appiccicato addosso, lui è pronto ad allearsi con Casini che però non vuole Vendola: una pantomima che continua da mesi tra allusioni, mezze frasi e balbettii, senza un solo straccio di chiarimento. L’altro evita gli specchi prima ancora di scalarli: qualunque accenno alla politica politicante può danneggiarlo, incrinando il suo profilo immacolato.

Per non parlare dell’ambiguità di entrambi su Monti. I due sanno che non ne potranno prescindere: così vogliono i mercati e l’Europa, e così sarà. Sperano che salga al Quirinale, ma – come sanno anche i bambini – la storia repubblicana non ha mai previsto un Presidente deciso a tavolino mesi prima. Sanno anche che una risata continentale accoglierebbe l’ipotesi di un Monti ministro al loro servizio. Così evitano il problema. “Andare oltre il governo Monti”, “Monti è una risorsa preziosa” sono le formule ipocrite che coprono il nulla.

Se poi, a proposito di nulla, uno volesse fare il mitologico confronto dei programmi – la parolina magica che editorialisti e popolo bue pronunciano ogni qualvolta non sanno che dire – si attrezzi a leggere quintalate di buoni propositi che, nell’una e nell’altra versione, non intercettano mai la realtà, né quello che hic et nunc andrebbe fatto per rimettere in piedi l’Italia. (Vedrete i salti mortali dei giornali, quando dovranno preparare i classici specchietti con i programmi contrapposti dei candidati…).

In sostanza – una volta eliminato dalla scena pubblica l’unico, vero e serio motivo di scontro, quello cosiddetto della rottamazione – al momento di queste primarie resta in piedi solo il non detto, il simbolico. Si sceglierà tra Bersani e Renzi sulla base di pulsioni, non di scelte razionali. A Bersani andrà il voto dei nostalgici, quelli che vogliono semplicemente vincere, dopo una vita di sconfitte accumulate cambiando maglia. A Renzi quello degli illusi, abbagliati dal grillismo democratico che incarna. Di Bersani si accontenteranno i menopeggisti, su Renzi cadranno gli eterni benaltristi: le due categorie in cui si divide da sempre un paese incapace di concepire e costruire il proprio futuro.

Per cortesia, inventatevi qualcosa, da qui al 25 novembre. Altrimenti anche il Primario andrà in pensione prima del previsto.

Ultima chiamata

Sto per farvi un discorso delirante, me lo dico da solo. Ma se fossi Matteo Renzi, da qui al 25 novembre direi qualcosa del genere:

Voglio cambiare la sinistra per cambiare l’Italia. Perché se non cambia la sinistra, l’Italia non può cambiare. Perché la sinistra ha contribuito a fare l’Italia che ci ritroviamo davanti oggi. Nel bene e nel male.

Il cambiamento non possono realizzarlo gli attuali dirigenti della sinistra, uomini e donne che vengono da storie politiche appartenenti al secolo passato. Sono persone che hanno dato molto all’Italia in momenti difficili, hanno garantito la tenuta democratica e dei conti pubblici, ma oggi sono arrivati al traguardo. Non hanno più energie da spendere né idee nuove. Per questo devono tutti essere avvicendati. Una nuova generazione politica con nuove idee: questo serve alla sinistra. E se tutto questo si chiama rottamazione, chiamatela pure rottamazione.

Qualcuno mi dice: perché vuoi cambiare la sinistra? Con le tue idee nuove vattene a destra, e lasciaci in pace. No, perché è la sinistra il luogo del cambiamento. La sinistra è nata per cambiare il mondo. E ci è anche riuscita. Perché se il mondo è già cambiato, e oggi miliardi di uomini e donne vivono meglio di prima, se tutti utilizziamo straordinarie tecnologie, abbiamo più tempo a disposizione, più possibilità culturali, è perché la sinistra ha combattuto per tutto questo. Insomma, se oggi il mondo è più bello – perché è più bello di prima, ricordatelo sempre – è anche grazie alla sinistra.

Così come sono della sinistra i cambiamenti e le conquiste realizzate in questo pezzo di mondo nello scorso secolo: la tutela dei lavoratori, lo Stato sociale. Ma oggi queste conquiste si possono difendere solo cambiando. Altrimenti deperiscono, fino a presentarsi come piccoli privilegi, protezioni corporative, e non parlano più a tutta la società.

La sinistra non è nata per difendersi, per proteggere, per conservare. E’ nata rivoluzionaria, innovativa, giovane, anticonformista, cosmopolita. Così io la voglio.

Tanto più in Italia, che da anni è un paese spento, immobile. Possiamo dire con onestà che la colpa di tutto ciò sia sempre e solo degli stessi? Di Berlusconi, della Prima Repubblica, dei padroni? Non andiamo in cerca di alibi parlando delle colpe degli altri. Guardiamo invece a quello che noi possiamo fare per rimettere in moto l’Italia, e a come dobbiamo cambiare noi per poter generare un cambiamento più generale.

Mi chiederete: ma con chi la vuoi fare questa politica? Pensi che ci sia tanta gente disposta a fare questo salto, ad abbandonare antiche certezze per nuotare in campo aperto? Io penso di sì. Chiediamoci perché tanti militanti e simpatizzanti della sinistra oggi sono critici, scontenti, delusi. E’ perché i suoi dirigenti non fanno questo discorso di verità, non parlano con il cuore in mano al popolo della sinistra italiana dicendogli che bisogna imboccare un’altra strada, che bisogna sapersi mettere in discussione per potere cambiare. Io penso che un discorso di verità può riscuotere il consenso della maggioranza della sinistra italiana. E che lo stesso discorso possa coinvolgere tanti che hanno votato a destra, perché delusi da una sinistra vecchia e conservatrice.

Il mio programma? Eccolo (…). Proposte chiare, e ampiamente condivisibili, come vedete. Ma il punto non è questo. Tutti sappiamo che cosa ci vuole per fare uscire l’Italia dalla crisi, per ridarle competitività, per farla funzionare come un paese moderno. Il punto è che, per realizzare un programma di cambiamento, oggi bisogna affidare l’Italia ad una nuova classe dirigente, fresca, vogliosa, determinata, ambiziosa.

Le alleanze politiche? Gli italiani che voteranno alle primarie sceglieranno un leader. Che sia competente, affidabile, serio, e che indichi una prospettiva. La prospettiva non può essere solo quella di un governo con l’Udc. Con tutto il rispetto per l’Udc, io quel governo lo farò, perché la mia sinistra non può essere alleata della sinistra conservatrice. Ma la mia prospettiva è un’altra, decisamente più ambiziosa. Io voglio cambiare l’Italia. Dare all’Italia una Costituzione adeguata, perché la nostra è bella e nobile, ma va rinnovata per essere all’altezza di una società nuova. Riformare le istituzioni, semplificarle e sburocratizzarle. Fare dell’Italia un paese giovane, che ai giovani dà possibilità e chances per crescere. Per fare tutto questo ci vuole tempo e fatica, anche perché questa rivoluzione la dobbiamo fare uscendo, insieme all’Europa, dalla crisi gravissima in cui versiamo. Ma questa è solo una ragione in più per farla, questa rivoluzione.

Per tutto questo vi chiedo di votarmi”.

Ecco, fossi Renzi farei grosso modo questo discorso. Ossessivamente, senza parlare d’altro. Se invece il giovanotto continua il balbettante tiki taka degli ultimi giorni, capisco i militanti e gli elettori che si rivolgono all’usato sicuro. Il discorso del cambiamento o è potente e inequivoco o non è. Il leader del cambiamento deve essere appassionato, urticante, deve sfidare gli avversari e il suo popolo. Deve lasciare senza fiato. Altrimenti fa (solo) marketing.

Questa vince, questa perde

Definiti con Bersani gli accordi sui posti da garantire al suo ridondante apparato, da qualche giorno Niki è concentrato per rianimare primarie già morte di noia, sul terreno che gli è più congeniale, la comunicazione.

Con la sua squadra solita, ha messo su una campagna ben fatta, con un buon claim (oppure Vendola), una grafica elegante e pulita, concetti forti al punto giusto. L’altro giorno, dopo l’assoluzione giudiziaria annunciata e scontata, è esploso su tutte le Tv, con contorno di lacrimucce e genuflessione gruberiana d’ordinanza. Mentre la macchina della rete gira sempre alla grande. Solo nelle ultime 24 ore, si è postato in versione casalinga, nella sua cucina (8600 mi piace, più di 1000 sbavanti commenti), e in quella materna (7200 mi piace, 500 commossi commenti). E oggi i suoi stanno montando con intelligenza un caso inesistente, accusando di omofobia un tale di Ferrara, che su Fb ha mandato Vendola a fanculo per una colossale minchiata detta su Blair. Insomma, onore al vecchio funzionario della Fgci che da tempo ha capito come funziona il gioco cinico della comunicazione, e bravi i ragazzi di Proforma, che fanno buoni prodotti e in rete allevano anche un bel numero di mazzieri al servizio del capo.

Però, diciamo la verità, stavolta Niki gioca facile. Perché non ha l’obbligo di vincere e, nel gioco mortale dei duellanti, la condizione del terzo incomodo è quella ideale. Per portare a casa un bel gruzzolo di parlamentari, il 25 novembre gli basterà anche un dignitoso 10%: volete che glielo neghino, le numerose anime belle della tremebonda sinistra italiana, dilaniate tra Menopeggio e Benaltro?

Per realizzare l’obiettivo, basterà tenere in piedi, nei prossimi 20 giorni, il tavolino delle tre carte allestito con Bersani. Un classico della politica italiana. Bersani e Vendola che firmano un patto di sangue per il futuro, ma un attimo dopo ognuno lo interpreta a modo suo. Vendola che chiude a Casini, Bersani che apre. Casini che dice no a Vendola, ma fa sapere che, se si nasconde in un listone Pd, non sono cazzi suoi. Così tutti si tengono le mani libere senza sconfessarsi. Bersani si copre a sinistra con Vendola e conferma la linea dell’accordo con il centro. Vendola può fingere il gioco dell’alternativa. E Casini può aspettare tranquillo l’esito delle primarie. Delle due primarie. Poi deciderà.

La ruota della fortuna

Per un po’ di giorni il Primario non ha scritto, venendo meno all’impegno preso. Ora – a parte la nota indolenza del soggetto – ma di che avremmo dovuto parlare? Di offerte – smentite e rigettate – di posti ministeriali, della trafila da fare per iscriversi e votare? Nei giorni scorsi, amici cari, era netta la sensazione che le primarie avessero già perso vita ed interesse, che il confronto fosse sempre più nominalistico e formale, tutto confinato dentro gli apparati allargati della sinistra, con truppe corazzate e cammellate anche sui social network.

Poi sono successe due cose. Il giro d’Italia di Renzi, troppo lungo, ripetitivo, non più notiziabile, è finito. E il giovanotto ha ricominciato ad intervenire sulla scena nazionale, tornando a fare, nuovamente, discorsi forti sul necessario, radicale rinnovamento di programmi e classi dirigenti della sinistra. E’ ancora poco, ma è ripartito con il piede giusto. Se farà il passo successivo – e cioè essere più tempestivo, esplicito e determinato nel dibattito e sulle prospettive politiche – si rimetterà in corsa. Non per ottenere un buon risultato (che sarebbe la cosa peggiore di tutte, il perché ve lo spiego un’altra volta), ma per vincere.

L’altra cosa accaduta è l’accordo – tutto sommato ragionevole – realizzato sulla legge elettorale tra Udc, Lega e Pdl (protagonista Rutelli!), che ha messo allo scoperto l’inconsistenza strategica del disegno di Bersani, stretto alle corde da spinte contrapposte. Napolitano vuole una nuova legge elettorale, purchessia. Gli altri partiti non hanno alcun intenzione di farne una a misura del Pd. Dipendesse da Bersani, si terrebbe tranquillamente ilPorcellum, la soluzione di gran lunga migliore per i suoi interessi elettorali. Ma il Porcellum provoca l’incazzatura di Napolitano e spiana la strada alla campagna elettorale di Grillo. Un bel guazzabuglio, dal quale il povero segretario non sa come uscire. Come dimostra la sua reazione impotente e stizzita all’accordo di ieri.

Accordo che naturalmente fa crollare il castello di carte costruito da Bersani sulle alleanze postelettorali. L’Udc, come è giusto e normale che sia, giocherà in piena autonomia la partita. La mia personalissima convinzione (anche di questo magari parliamo un’altra volta) è che la cosa più probabile sia che Casini diventi leader o premier di una coalizione rinnovata di centrodestra: ne avrebbe tutte le caratteristiche, lo chiederebbe la sua storia. Soprattutto se – come sta accadendo negli ultimi giorni – intorno a Bersani si radunerà un caravanserraglio di cui Vendola si troverà ad essere l’esponente più responsabile e moderato. Non so se vi è chiaro: Diliberto lascia non so più quale frazione di comunisti e lavora per l’accordo con il Pd, De Magistris fa liste arancioni fiancheggiatrici, schegge dell’Idv si preparano a chiedere posti in lista, e così via. Altro che ‘94, altro che Unione: a Bersani stanno confezionando di peggio.

Insomma, torna a girare la ruota, per usare una di quelle espressioni d’antan che sono care al segretario del Pd. Ma può girare per il giovanotto di Firenze. E, comunque sia, va a finire che – forse – nei prossimi giorni di queste primarie torneremo a parlare divertendoci.

Scipione il fiorentino

Ora che il giovanotto ha sbottato “non sto né con Vendola né con Casini”, le primarie escono dal “vuoto vacuo” (cit. Woody Allen) e la sinistra rimette in scena per la centesima volta il più classico, antico e sconclusionato dei suoi dibattiti: quello sulle alleanze.

Che fare? Allearci con i moderati o con i radicali? Su chi puntare? Di chi ci si può fidare? E da che parte tirerà la coperta del consenso? Resteremo scoperti a destra o a sinistra? Domande palesemente senza senso, che mettono solo – e tragicamente – in evidenza il vero, grande problema della sinistra italiana: quello della sua propria identità.

Non parlo dell’identità con quattro i maiuscole, per amor di Dio, tipo vogliamo più giustizia o più libertà, più eguaglianza o meno welfare. Tantomeno parlo dell’identità fatta di domande angosciose ed estreme, che-cosa-è-la-sinistra-anzi-che-cosa-è-di-sinistra-nell’epoca-della-globalizzazione per capirci. No, io parlo di un’identità più concreta, direi terra terra. Siamo qui, oggi, abbiamo un partito che è (in potenza, per lo sfascio degli altri, per qualche congiunzione astrale) un contenitore ampio, veniamo da un’esperienza di governo non brillante dei nostri avversari, ci sono le condizioni per vincere le elezioni. Quindi, proviamo a dire e fare le cose giuste. Presentiamoci convinti della nostra centralità. Chiediamo agli italiani di votare noi, non noi con l’aggiunta (decisiva, a quel punto) di qualcun altro. Puntiamo a vincere. E proviamo a governare. Ecco, parlo di un’identità così. Con la i minuscola, se vi piace dire così (per me, individualista fottuto, è moltissimo, quasi troppo). Impossibile lavorarci?

Tentò di fare una cosa del genere – absit iniuria verbis – il signor Walter Veltroni nel 2008. Non ci riuscì per tre ragioni: 1) perché si veniva da due anni di disastroso governo del centrosinistra; 2) perché partì volendo fare il partito a vocazione maggioritaria, e finì per allearsi con Di Pietro, con i radicali sottobanco, e così via, insomma dando messaggi deboli e contraddittori; 3) perché si chiamava Walter Veltroni, uno strutturalmente non all’altezza delle sue stesse idee e comunque figlio di una storia vecchia e già usurata.

Ciò nonostante Walterino ottenne, in quelle condizioni disperate, un risultato di tutto rispetto per il suo partito. E, se non avesse fatto l’errore dell’alleanza con Di Pietro, consegnandogli dopo il voto la leadership dell’opposizione, e non avesse manifestato la sua nota codardia dimettendosi, oggi sarebbe in sella e si ricandiderebbe con buone possibilità alla premiership (voi dite meno male che questa sciagura ce la siamo evitata, ma questo è un altro discorso).

Oggi il giovanotto fiorentino pare voler tentare una strada simile. Lui si tocchi le parti basse per il parallelo. Tutti voi sappiate che è l’unica strada possibile per dare un’identità ad un partito che si definisce ormai solo per negazioni, per rialzare la schiena evitando lagnose e melodrammatiche discussioni su radici e tradimenti, e provare ad andare veramente al governo la primavera prossima.

Comunisti

Festa di compleanno con comunisti. (Capiamoci: comunisti in quanto provenienti, in grandissima parte, dalla storia del Pci, salvo qualche democristiano spiaggiato nel Pd e sparuti, ignari giovani nati alla fine del secolo breve).

Sono stati parte essenziale della mia vita, gli voglio bene, li scruto con affetto, e li vedo generalmente ben sopravvissuti alla mezza età. In gran parte insegnanti, funzionari di partito, ex amministratori, parlamentari, hanno imparato a vestire (eleganza fin troppo misurata, le donne si nascondono nel fastidioso nero di ordinanza), esibiscono rughe con una certa noncuranza, portano accettabili pancette. Poi accademici di fascia b, avvocati, commercialisti. Un po’ di società politica allargata, con occhi interroganti: ma questi stanno tornando al potere o lo stanno perdendo definitivamente?

Sono, ovviamente, tutti schierati. In gran maggioranza i bersaniani, che argomentano con razionalità. Ottimisti: “Al premio non si arriva anche se lo mettono al 40%, ma basta il bonus al primo partito per fare fuori Vendola, che va sotto soglia, e accordarsi poi con Casini”. Cinici: “Teniamoci il Porcellum, in fondo ci dà più garanzie”. Preoccupati: “Torno dal coordinamento. Bei discorsi, ma nessuno prende impegni operativi”. Alle strette, appaiono smarriti, vagamente impauriti: “Si vincono le primarie, si possono perdere le elezioni”; “Nel migliore dei casi, siamo all’ultimo giro”; “Che accadrà? Mah, non si capisce niente”.

I renziani – pochi – si aggirano per la sala con spavalderia, e ripetono il loro mantra: “Non c’è storia, abbiamo già vinto”. “Ma in che senso? Perché li avete costretti a rottamare?”. “Che hai capito? Vinciamo nel senso che il 25 novembre li stracciamo…”. Hai voglia ad obiettare, a ricordare i sondaggi e le regole complicate. Loro non rispondono, non argomentano, ti guardano con aria pietosa. Un po’ ammiccano, come a dire lasciaci lavorare ragazzo. Non capisco se è paraculaggine o incoscienza.

Nella discoteca che più tardi ospiterà (immagino, in realtà non so come funziona) folla di corpi sudati e suoni che impediscono parole, ci sono stasera due mondi lontanissimi, che non si toccano ma convivono tranquillamente. Mi viene da pensare alle differenze con il 1989, quando il mondo dei comunisti cadde dall’albero delle ideologie e si spaccò come una mela, con atroci sofferenze: famiglie divise, amicizie rotte, dibattiti eterni. Ora ci si bacia e ci si sfotte con allegria stanca, e si aspetta il verdetto prossimo senza angoscia né fretta. Nessuno sa cosa succederà il giorno dopo le primarie. Per molti dei presenti, l’esito non sarà ininfluente, potrà inciderà sulle carriere. Ma lo scontro no, nessuno lo vuole, ha il sapore del già visto. E poi, come diceva il vecchio? La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda…

La notizia invece è un’altra, mette d’accordo quasi tutti, ed è il rovesciamento del classico luogo comune giornalistico. Se vincerà Renzi, il partito rimarrà grosso modo unito. Andrà via qualcuno, i più cercheranno di sopravvivere alla furia rottamatrice e contratteranno qualche posto. Se vincerà Bersani, il giorno dopo Renzi tornerà a Firenze, organizzerà le sue truppe e farà un partito nuovo. L’esatto contrario di quello che sostengono gazzette, analisti e bottegologi (mo’ come si dice? Nazarenologi?).

E questa, amici miei, è la cronaca fedele di una serata all’epoca delle primarie. Dove, comunque, abbiamo mangiato e bevuto in abbondanza, e con la mia vecchia famiglia mi sono fatto un sacco di risate.

PS. Alle 23.30, all’uscita, transenne su via Posillipo: tatuati e tatuate premono per entrare in discoteca. “Oh, ci sta pure una festa politica”. “Che ce ne fotte, nuie vutamme tutte quante a Grillo”.

Volano i primi stracci

Ricevo, pubblico e non commento.

“Caro Primario, altro che convivenza tranquilla, come tu sostieni. Fatti un giretto in Italia e vedrai che cosa sta succedendo tra gli ex comunisti di tutte le confessioni. La guerra contro il mostro Renzi è diventata un imperativo categorico, e non è quella che si combatte a viso aperto nei confronti televisivi, con le idee e i volontari. E’ sceso ormai in campo quell’esercito del 95% di apparato e parastato, lautamente pagato con soldi pubblici e privati (le Fondazioni), tutto schierato contro Renzi, e largamente attrattivo in fase preelettorale.

Lombardia. Come mai in Lombardia non si faranno primarie? Non è che l’accordo tra UDC-Tabacci e SEL (indicibile da Vendola al primo turno) prefigura già una allegra spartizione su scala regionale in vista del secondo turno nazionale?

Campania. Come stanno insieme l’endorsement del plurisindaco De Luca e quello meno esplicito del bassoliniano Cozzolino? I due non si possono vedere e pensano di concorrere entrambi alle prossime regionali. Alla prossima iniziativa bersaniana di Napoli Cozzolino ha imposto che non compaia il nome del nemico De Luca, che invece viene messo in bella mostra in Lombardia. Sembra che i due nemici stiano consigliando ai loro seguaci incerti e arrabbiati di votare Vendola.

L’unico che potrebbe scegliere Renzi, Umberto Ranieri, vittima delle primarie più imbrogliate della storia (quelle di Napoli), esita. Perchè non si spenda impropriamente il nome di Napolitano (come pure fu fatto in occasione delle suddette primarie) o perchè questa è la minaccia dei capibastone?

In quanto a De Luca, il sindaco più amato e longevo d’Italia, che a suo tempo definì sepolcri imbiancati i dirigenti che oggi appoggia, perchè ha cambiato idea? Con quali argomenti sta stringendo la briglia dei suoi (Bonavita ha cambiato orientamento in poche ore)? Insomma le fazioni campane sono al lavoro alla grande. Senza Blog e senza Twitter, di solito a mazzate.

Letta, i vedroidi e 360°. Renzi è sempre stato ospite fisso di Vedrò, iniziativa finanziata da Enel e da altri sponsor, come il bilaterale Italia-Spagna: entrambi eventi promossi da Enrico Letta.

I vedroidi, come si autodefiniscono, sono più liquidi, li trovi un pò ovunque che gridano lo slogan del network “viva Vedrò” : tra i ministri del governo tecnico, tra i deputati, a discettare di Francia, di lobbying, di Nuova Politica e di “leadership”, e molti di loro sono piazzati anche tra i renziani. In questo contenitore di fine estate tutti parlano educatamente di politica ed altro, persino di coraggio. L’unico esentato dal coraggio per nascita è proprio il leader Enrico Letta. Di questo Letta non si riesce a parlar male è intelligente, preparato, colto, gentile eppure, appena c’è odor di battaglia, lui si rannicchia in posizione fetale dalla parte del più forte, per uscire a botte finite chiedendo “Ho vinto quaccheccosa?”

Enrico sta con Bersani, moderatamente, ma mantiene un amichevole rapporto con Renzi. Non si sa mai. Poi c’è la fondazione 360° creata da Letta per definire l’ identità del PD. Sulla pagina FB della Fondazione 360?°, l’ex-portaborse di Letta, Marco Meloni, responsabile università e membro della inutile “segreteria dei segretari” nominata da Bersani (il cui coordinatore per un pò è stato Penati), non perde occasione sulla bacheca di Vedrò e sul suo Blog di attaccare Matteo Renzi. Una volta si chiamava gioco delle parti. Adesso è ipocrisia 2.0?

Roma Imperiale. L’evento più significativo della Roma politica è stato tutto meno che 2.0. Si è trattato del bel compleanno di Goffredo Bettini, ormai tornato “promoter” di cultura cinematografica nel mondo, che ha celebrato i suoi 60 anni alla presenza di tutto il “Modello Roma”: da Letta a Caltagirone, passando per Veltroni per arrivare a Gasbarra, candidato sindaco dopo lo scarto di Zingaretti. Tutta roba alla luce del sole o almeno senza dover nascondere nulla. Anche qui però ci sono i raccoglitori di frattaglie… Il sottobosco partitico correntizio, che teme come la peste qualunque equilibrio non costruito tra “sottopanza”, è contro il sindaco di Firenze: bettiniani DOC come Meta e veltroniani antibettiniani come Morassut. Tutti uniti contro Renzi. Su Facebook si distingue un certo Enzo Puro, che si dice amico di Bettini e dà dell’imbecille a tutti i non bersaniani. A parte la la giovane assessora Prestipino, che fa la parte della disturbatrice, per la Roma neo-generona de’ centrosinistra (sempre meglio di Aledanno) è l’ora della reconquista e quindi il renzismo è “out”. No pasaran.

Insomma, mi sa che i fan del ragazzo rottamatore debbono aprire gli occhi, non tutto avviene in TV e su internet e nemmeno nei teatri e tra i banchetti. Di fronte alle corrazzate scese in campo le discussioni sulle risorse di Renzi e gli sms di Bersani fanno un pò ridere.

Firmato

Un ultrà renziano che conosce i comunisti”

La preprimaria del primario

Dedico questo lunedì 19 alle primarie: braccia rubate non ai campi ma al niente, il danno sarà minimo per me e per tutti. Avendo deciso di tornare a votare dopo 10 anni, pronto a illudermi di contare qualcosa, comunque consapevole di condurre l’ennesima battaglia a perdere della mia vita (questa volta in favore del giovanotto di Firenze), mi appresto di buon ora a recitare la parte del bravo elettore. Prima di tutto cercando la tessera elettorale.

La trovo tra vecchie foto, pagelle delle elementari e corrispondenza varia. Mi fu consegnata ad Anacapri, dove risiedevo nel 2001. Per motivi fiscali, come si dice pudicamente. Avendo acquistato lì la mia prima e unica casa (quella di Napoli, per sua fortuna, è di mia moglie), con il cambio di residenza pagavo meno tasse all’odiato fisco. Qualche anno dopo la casa di Anacapri l’ho venduta e ho comprato a Stromboli. Sempre prima casa, naturalmente: ho quindi ricambiato residenza, per i motivi di cui sopra. Il punto è che – non avendo più votato appunto dal 2001 – non ho mai chiesto una nuova tessera elettorale. Insomma sono cittadino di Stromboli, elettore ad Anacapri, e domiciliato tra Roma e Napoli.

Ora, già qui potremmo arrivare ad una prima conclusione, mi rendo conto. Parliamoci chiaro, Velardi. Tu cambi residenza più spregiudicatamente di Briatore e Valentino Rossi, sei un cittadino da quattro soldi perché non fai il tuo dovere democratico ogni tot anni, e pretendi pure di spiegare sto casino ai generosi e indefessi militanti del Pd, che in questi giorni si fanno il mazzo per consentire domenica prossima una straordinaria-mobilitazione-civile-e-democratica-festa-di-popolo. Mi si potrebbe tranquillamente dire: “Vela’, restatene a casa e ringrazia Iddio che non chiamiamo Befera a secutarti”.

Giusto per aggravare la mia condizione, prima di scoprire (stamattina) di essere un elettore di Anacapri, avevo commesso (ieri) un errore letale, registrandomi online come elettore di Stromboli. Dicendo una fesseria (commettendo un crimine? non è escluso) e – come ho scoperto poi – precludendomi anche la possibilità della registrazione come lavoratore fuorisede. Qualifica di cui vorrei orgogliosamente fregiarmi, essendo un utente abituale della Tav Napoli-Roma. Anche se non risiedo, come avete forse capito, né a Napoli né a Roma.

Bene: armato della mia discutibile condizione, con tessera elettorale non valida e stampa della registrazione online farlocca, ho varcato verso le 18 la soglia di via Toledo 106, sede del Pd napoletano, che ospita la sezione di Montecalvario, momentaneamente senza sede. Manifesti del Pci alle pareti, poster inneggianti al nuovo sindaco di Cardito, la porta del segretario provinciale priva di maniglia esterna (per evitare le continue intrusioni: si bussa e lui apre dall’interno). Sta per cominciare un’assemblea sulle primarie dell’”area Marino”, cui mi invitano a partecipare. Mi limito a salutare con affetto vecchi compagni: Aldo, Sandra, Ettore, e così via.

Nell’ufficio delle registrazioni manca l’addetto, ma c’è la preziosissima compagna che da anni tiene su l’intera baracca napoletana. “Ci penso io, Vela’, vieni qua che riempiamo il modulo”. Io smonto il suo efficiente fervore cominciando il mio penoso racconto, e il modulo si riempie di cancellature. Nel frattempo – perché a Napoli COSI’ succede, è inutile che ironizziate – si raduna intorno a me una piccola folla di giuristi, analisti politici e commentatori. “Niente da fare, non puoi votare”. “Ma tu si’ cunusciuto, vieni domenica al seggio e voti”. “Scusa, il seggio di tua moglie quale è? Il 55? E vieni al 55 insieme a lei”. “Mancano regole certe, non siamo mica l’America”. “Vela’, nun si cagnato, si’ ‘o solito sfrantummato”.

Conclusione. Sono andato via senza la cartuscella dell’ammissione al voto. Ho lasciato il numero del mio cellulare. Qualcuno mi chiamerà “direttamente”: il caso si risolverà, non c’è da preoccuparsi.

PS. Per quanto pesantemente autolesionista, questa è la cronaca fedele della mia preprimaria da Primario. E mo’ vado a soffrire con la Maggica.

La crisalide e la bestia

Cari amici e compagni, elettori certi o incerti, veri o presunti, del centrosinistra o di sinistra, il Primario giunge stremato alla fine della campagna, consapevole di aver azzeccato certamente l’occhiello della sua rubrica. E quasi niente altro, come sempre.

Sperava in una campagna forte e divertente, piena di colpi di scena e scontri sanguigni (lo so, voi invocherete i contenuti, i programmi: ma quelli andate a cercarli in un preludio di Bach o in una ratatouille ben fatta). E invece ha assistito, con tutti voi, al progressivo, pietoso appannarsi delle differenze e all’ingrigirsi di ogni profilo: il Grande Scontro annunciato si è trasformato in un birignao stucchevole, il conformismo mediatico ha avvolto nel miele la parata, nascondendo i colpi di maglio degli apparati che domenica presenteranno i conti.

Voleva un Grande Safari, il Primario, e non perché ami il sangue. E’ che conosce la Bestia, tutto qua. Conosce da dentro questo mutante che da decenni cambia pelle senza cambiare anima. Si mimetizza e si lamenta quando è sotto scacco, è brava quanto nessun altro a risorgere, ammaccata e fiera, per andare incontro a successive sconfitte e nuovi pentimenti. Piange lacrime di coccodrillo dopo aver fatto guai, per prepararne un momento dopo di identici. Cambiando nomi, formule e percorsi. Mettendo in scena uno spettacolo sempre uguale per il suo pubblico illuso, tenero e vociante, che si commuove, urla: “Unità, unità” e butta sotto il tappeto la storia, specchiandosi nella Bestia acciaccata e rivedendo le magnifiche sorti che furono.

Per questo il Primario chiedeva la deflagrazione. L’unico atto che poteva fare del bene, pompando di forza aria nuova nel corpaccione e mostrando al pubblico lo spettacolo della realtà. Un alito di vita, sporca e vera, questo serviva. Con un morso dato nel punto giusto, quello della continuità: il punto del corpo della Bestia dove storia della comunità e biografie individuali si congiungono in una mitologia avvizzita, che tiene in vita con artifici da illusionisti tutto, ma proprio tutto quello che è morto.

Ma l’impresa l’ha tentata l’animale inadeguato. Un animale che ha dichiarato cento volte di voler affondare i denti proprio lì, e ha dato il tempo alla furba Bestia di organizzare le difese. Un animale invertebrato, che della modernità sembra conoscere le sinuosità, ma non la fatica che impone: il cambiamento dentro di sé, in ognuno di noi. Un animale che “poteva essere farfalla, ma è rimasto una crisalide”, per dirla con Bersani (Samuele, “Lo scrutatore non votante”). Spigliato, fresco, ammiccante. In una parola: inconsistente.

Il Primario lo sceglierà comunque, questo animaletto, perché gli va dato il merito di avere rimesso in movimento la Bestia: tanto basta per puntare su di lui sto famoso centesimo che spopola nella politica italiana da qualche settimana.

Ma è bene sapere che, dal prossimo lunedì (o di qui a 15 giorni, cambia poco), non uno solo dei problemi della Bestia sarà risolto. Si accentuerà il suo strabismo a sinistra: è quello il fianco scoperto, dove il suo Dna si allerta, temendo avversari e concorrenti in cerca delle stesse sue spoglie. E il suo andamento verso il mitico Guado sarà sempre più ondeggiante e claudicante, appesantito da piccole carcasse e innervosito da parassiti di ogni genere.

Fino a quando, percorso con fatica l’ultimo tratto, non le si parerà davanti il Guardiano, che la scruterà dall’alto in basso e sentenzierà: “Bestia, è da 30 anni che ti dico come fare a passare il Guado. Ormai è tardi, e tu sei vecchia e malata. Resta lì a consumarti nei tuoi spasmi. Abbiamo ancora bisogno di un tecnico per raggiungere l’altra sponda.”

E qui il diario si conclude…