La pace tra Israele e Palestina è ancora possibile

Natan Sachs, direttore del Centro per la Politica del Medio Oriente della Brookings Institution, ha scritto un saggio di grande interesse e spessore analitico per Foreign Affairs. Ringrazio Filippo Piperno per la segnalazione e la traduzione.

L’orrendo attacco di Hamas del 7 ottobre e la devastante guerra che ne è seguita hanno confermato il disastroso fallimento della strategia di “resistenza” di Hamas, fondata sul massacro di civili israeliani, che non ha portato la liberazione della Palestina ma la rovina della Striscia di Gaza. E ha anche messo in luce il fallimento della strategia a lungo perseguita da Israele di contenimento del conflitto con i palestinesi, dopo l’insuccesso del processo di pace dei primi anni 2000.

L’attentato del 7 ottobre e la guerra di oggi hanno così messo a nudo la logica fallace e sconsiderata delle proposte di uno Stato unico, che si ponga l’obiettivo di allontanare l’estremismo che alimenta il conflitto e la paura esistenziale che lo anima. Ma hanno anche reso la soluzione dei due Stati in tempi brevi ancora meno probabile di quanto lo fosse prima del 7 ottobre, con gli israeliani terrorizzati da qualsiasi sovranità palestinese e dalla potenziale ripetizione del massacro di quel giorno, e i palestinesi molto meno pronti per un compromesso storico con Israele, dopo la devastazione della Striscia di Gaza.

Apparentemente senza soluzioni, l’amministrazione Biden e gli stessi israeliani e palestinesi devono e possono trovare una strada verso un futuro meno terribile. Non devono ritornare alle stesse strategie di contenimento del conflitto che hanno preparato il terreno per il 7 ottobre, né alle idee sconsiderate ora in voga in Occidente di una soluzione a Stato unico – essenzialmente un cambio di regime nella cosiddetta Palestina/Israele. Tutte le parti, invece, devono avere ben chiaro sia l’obiettivo strategico sia, cosa non meno importante, il lungo percorso verso di esso. Devono riaffermare un orizzonte politico, per quanto distante, dell’indipendenza israeliana e palestinese – anche se non assomiglia esattamente alla vecchia soluzione a due Stati – insieme a una politica solida per gestire il lungo periodo intercorrente prima della risoluzione del conflitto. Deve essere chiaro che la scelta non è tra la pace totale e la riconciliazione oggi, che non è possibile, e il ritorno ad un sanguinoso allontanamento da essa, che porterebbe solo ulteriore rovina.

Invece, finché non sarà possibile una risoluzione del conflitto, la migliore possibilità risiede in una spinta vigorosa verso una maggiore indipendenza per i palestinesi in ambito civile, affrontando al tempo stesso le fonti di paura di entrambe le parti. Questo approccio prenderebbe seriamente in considerazione l’approfondimento delle preoccupazioni israeliane sulla sicurezza dopo il 7 ottobre, e porrebbe un limite all’autorità di sicurezza da trasferire ora sotto il controllo palestinese. Ciò richiederebbe che gli Stati Uniti usino la loro influenza su Israele per contenere la violenza contro i civili palestinesi in Cisgiordania e l’espansione delle attività di insediamento, entrambe fonti di insicurezza palestinese. E richiederebbe uno sforzo massiccio degli Stati Uniti a Gaza, sfruttando la propria influenza su Israele, Egitto, Autorità Palestinese e Stati del Golfo, per iniziare a ricostruire e ricostituire un futuro per Gaza governato da attori palestinesi laici.

Gli attuali leader israeliani e palestinesi sono ostili o incapaci di perseguire seriamente tali strategie. Il 18 gennaio, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato pubblicamente di respingere la spinta degli Stati Uniti per uno Stato palestinese una volta terminato il conflitto a Gaza. Ma ciò non dovrebbe impedire agli Stati Uniti o ad altre parti interessate di spingere per ciò che è nell’interesse di tutte le parti. Anche se questo conflitto potrebbe non essere risolto per il momento, gli Stati Uniti possono ancora contribuire a trasformare la realtà sul campo in modo che israeliani e palestinesi si muovano verso una soluzione reale, piuttosto che allontanarsene.


FALLIMENTO DEL PARADIGMA


Proprio mentre si svolgeva il terribile attacco del 7 ottobre nel sud di Israele, gli israeliani scioccati cercavano di dare un senso al fallimento dell’intelligence che aveva permesso l’invasione a sorpresa da parte di migliaia di terroristi di Hamas. È tornato a tutti il ricordo del 6 ottobre 1973 – 50 anni e un giorno prima – quando l’Egitto e la Siria lanciarono un attacco a sorpresa contro Israele, rompendo le sue linee difensive nel Sinai e sulle alture di Golan. L’attacco a sorpresa del 1973 è ampiamente attribuito al fatto che gli analisti israeliani divennero prigionieri della loro stessa struttura concettuale – una decantata Conceptzia, in ebraico – che li portò a valutare prove nuove e potenzialmente contraddittorie sulle intenzioni e sulle capacità egiziane e siriane semplicemente come conferma delle loro ipotesi errate esistenti.

Nel 2023, Israele ha sofferto nuovamente di una forma simile di bias di conferma. I leader israeliani e gli analisti dell’intelligence erano convinti che Hamas fosse concentrato sul miglioramento della vita a Gaza e sul rafforzamento della sua posizione politica nella società palestinese. Questa convinzione è stata rafforzata da quello che Israele riteneva fosse un efficace approccio del bastone e della carota: Hamas era scoraggiato, hanno valutato i funzionari israeliani, ed era sempre più incentivato a evitare il conflitto dal graduale allentamento del blocco israelo-egiziano di Gaza. Le prove contrarie sono state reinterpretate o scartate di fronte a questa visione del mondo preconcetta.

Eppure, il massacro del 7 ottobre rappresenta per Israele non solo un fallimento operativo, ma anche strategico. Per anni, Israele ha affrontato la questione palestinese, e molto altro, con una strategia “anti-soluzionista”, come l’ho definita in Foreign Airs nel 2015. Gli israeliani erano arrivati a credere che non esistessero soluzioni fondamentali al conflitto con la Palestina, ed era quindi meglio costruire muri, investire nel proprio futuro e imparare a convivere con un basso livello di violenza cronica. In un modo apparentemente conservatore, gli israeliani hanno evitato qualsiasi grande progetto volto a riorganizzare la realtà. Molti sono arrivati a credere che il “soluzionismo” che ha animato il processo di pace abbia prodotto solo la violentissima seconda intifada, iniziata nel 2000. E che il ritiro unilaterale di Israele da Gaza nel 2005 ha portato solo all’ascesa di Hamas e al sanguinoso stallo di dieci anni e mezzo con il gruppo terroristico.

Questo è il motivo per cui Netanyahu e molti israeliani hanno optato invece per il contenimento del conflitto: la strategia di “dare un calcio al barattolo”. Sotto Netanyahu, Israele ha rinunciato a rovesciare il regime di Hamas a Gaza e ha invece cercato un modus vivendi con il gruppo. Israele ha mescolato la deterrenza (a volte “falciando l’erba” con attacchi alle capacità di Hamas quando provocato) con la volontà di accogliere ampiamente il governo di Hamas del suo staterello di Gaza, a poche miglia dalle case civili israeliane. Israele non cercava la pace – che comunque Hamas non avrebbe mai accettato – ma una posizione con cui convivere.Questo approccio ha anche rafforzato il divario politico e fisico tra i palestinesi che aveva tenuto l’Autorità Palestinese, con sede in Cisgiordania, fuori da Gaza.

Sebbene i palestinesi fossero i principali artefici della loro stessa disfunzione politica, questa divisione tra i palestinesi si adattava all’interesse di Netanyahu di avere un’Autorità Palestinese indebolita. A dire il vero, se lui o qualsiasi altro leader israeliano avesse potuto far sparire Hamas con uno schiocco di dita, lo avrebbe fatto: Hamas ha ucciso civili israeliani per decenni e ha lanciato regolarmente migliaia di razzi sulle città israeliane dal 2001. Eppure la sua indipendenza dall’Autorità Palestinese ha favorito gli obiettivi di Netanyahu, come ha detto esplicitamente ai suoi alleati politici nel 2019: “Chiunque voglia ostacolare la creazione di uno Stato palestinese deve sostenere il rafforzamento di Hamas e il trasferimento di denaro a Hamas… fa parte della nostra strategia: isolare i Palestinesi a Gaza dai palestinesi in Cisgiordania”. Se Hamas non può essere sradicato facilmente, è meglio trovare un modo per convivere con il gruppo e magari trarne vantaggio, questo il ragionamento.

Se questo fosse stato un approccio genuinamente conservatore, non sarebbe stato assurdo. Evitare il rischio può essere saggio in tempi volatili, e rinviare le scelte difficili può essere intelligente se il tempo è dalla propria parte. E durante il decennio precedente all’ottobre 2023, la strategia israeliana sembrava dare i suoi frutti. Mentre i governi arabi si stancavano di aspettare una soluzione sfuggente alla questione palestinese e diventavano desiderosi di perseguire i propri interessi nazionali, la normalizzazione tra diversi stati arabi e Israele è diventata una realtà gradita. Nel perseguire questi accordi, entrambe le parti hanno ignorato la questione palestinese. Gli Accordi di Abraham, che furono il risultato di questo processo, sembravano una prova del successo dell’approccio di Netanyahu. Era ciò che la destra israeliana aveva promesso da tempo: “pace per pace” invece di “terra per pace”.

L’approccio di Israele, tuttavia, non è stato veramente conservatore. Invece di adottare sinceramente un modello di tenuta prudente che gli avrebbe accordato flessibilità strategica in futuro e arrestato tendenze dannose nel breve termine, Israele stava semplicemente precludendo le sue opzioni future – e quelle dei palestinesi – attraverso un’annessione strisciante della Cisgiordania e l’erosione dell’Autorità Palestinese. Netanyahu si trovava a presiedere una realtà in drammatico peggioramento, anche se i vantaggi diplomatici derivanti dalla normalizzazione erano significativi.

Nel frattempo, nella Striscia di Gaza, invece di adattarsi alla realtà dell’esistenza e della superiorità di Israele, Hamas si è trincerato e si è armato, preparandosi a cogliere l’opportunità di attaccare, anche se una generazione di abitanti di Gaza è cresciuta in una realtà impossibile. Mentre Hamas perseguiva guerre intermittenti con il suo vicino più potente, gli abitanti di Gaza sopportavano gran parte del peso maggiore. Hanno dovuto affrontare un blocco israelo-egiziano di Gaza volto a contenere Hamas ma causando anche enormi danni ai suoi sudditi. La stessa Hamas è stata l’agente chiave nel creare queste condizioni, ma la strategia di Israele ha contribuito a crearle. Hamas si stava rafforzando mentre l’Autorità Palestinese in Cisgiordania si indeboliva sotto il peso della propria inettitudine e corruzione.
Il tempo, in altre parole, non era dalla parte di nessuno. Non c’era qualcuno a gestire il conflitto, era il conflitto a gestire allo stesso modo israeliani e palestinesi.

Il 7 ottobre ha messo in luce il pericolo dell’antisoluzionismo. Ma agli occhi degli israeliani ha anche screditato la maggior parte delle soluzioni proposte al conflitto. Il trauma e la paura che l’attacco ha instillato sono ancora sottovalutati da molti al di fuori di Israele. Oggi una cosa è chiarissima per gli israeliani: non permetteranno mai più che una cosa del genere accada. Qualunque sia la disapprovazione internazionale che devono affrontare, gli israeliani non permetteranno a un gruppo radicale di governare nella porta accanto mentre è libero di addestrarsi e prepararsi a conquistare villaggi e città israeliane in modo da poter massacrare, stuprare e rapire sistematicamente civili israeliani.
Anche se molti israeliani incolpano Netanyahu per il fallimento, sono anche diventati ancora più diffidenti nei confronti del potere palestinese in qualsiasi sua forma. E anche se i palestinesi possono arrivare a incolpare Hamas per ciò che ha prodotto per il suo popolo, non sono più propensi a perdonare gli israeliani per l’odierna devastazione di Gaza o a cercare una riconciliazione storica e fondamentale con gli israeliani più di quanto lo fossero il 6 ottobre.

Gli eventi degli ultimi tre mesi hanno confermato per israeliani e palestinesi le peggiori paure reciproche. Motivato da obiettivi e risentimenti nazionali, religiosi e personali allo stesso tempo, il conflitto diventa esistenziale, in senso letterale. Entrambe le parti credono di non poter sopravvivere se l’altro ha il potere, il che significa che qualsiasi concessione potrebbe portare alla catastrofe. Questa convinzione incoraggia l’azione preventiva, per evitare che il nemico acquisisca più potere nel tempo. Una strategia che da una parte rende razionale la paura dell’altra parte, che ora deve correttamente ritenere di non potersi permettere di perdere, qualunque cosa accada. Il risultato è un dilemma di sicurezza etnica, in cui ogni parte crede di dover sopraffare l’altra per evitare di essere a sua volta sopraffatta e decimata nel tempo.

Questa paura non produce un ciclo di violenza, né la messa in scena di antichi odi. Non rappresenta alcuna irrazionalità o tendenza alla vendetta unica di questi particolari popoli. Si tratta invece di un equilibrio di paura razionale, comune a molti conflitti etnici ma reso più acuto dalle circostanze di questo. Fu questo tipo di equilibrio ad alimentare la violenza diffusa nell’unico stato della Palestina mandataria dai primi anni ’20 fino alla fondazione di Israele nel 1948. Ha continuato ad animare il conflitto per decenni ed è molto peggiore oggi di quanto non fosse solo tre mesi fa.

È questa paura a rendere molto più difficile il raggiungimento di una soluzione a due Stati. Gli israeliani sono restii a concedere ai palestinesi il controllo della sicurezza su un altro centimetro di terra. La preoccupazione di Israele ora è che ciò che è accaduto al sud di Israele il 7 ottobre possa accadere al suo centro densamente popolato, confinante con la Cisgiordania, proprio come potrebbe accadere lungo il confine settentrionale di Israele con il Libano dominato da Hezbollah. Prima del 7 ottobre, alcuni dirigenti israeliani avrebbero potuto prendere in considerazione l’idea di ampliare il territorio sotto il controllo di sicurezza dell’Autorità Palestinese, ora non è più così.

Le sfide che la soluzione a due Stati deve affrontare, tuttavia, non hanno in alcun modo creato sostegno per la soluzione a uno Stato. Lo Stato unico ora sostenuto in molti ambienti esteri è spesso descritto come un unico Stato che comprende tutto Israele, la Cisgiordania e Gaza, dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo. Apparentemente includerebbe tutti gli israeliani e palestinesi e discendenti dei rifugiati palestinesi del 1948 che scelgono di tornare. Sarebbe governato, si sostiene, da una democrazia laica e liberale in stile occidentale, presumibilmente in pace.
Le possibilità di pace di un tale stato sarebbero tuttavia estremamente piccole. I sostenitori dello Stato unico presumono che in questo nuovo Stato, gli estremisti di tutte le parti e la paura che ha motivato anche molti moderati a combattere, svaniranno di fronte a una nozione laica di giustizia. Saranno finiti gli impegni religiosi degli estremisti e i sogni nazionali profondamente radicati di tanti, tanto che non ci sarà alcuna minoranza abbastanza significativa da rovinare la pace e riaccendere quella paura onnicomprensiva. Non solo i belligeranti di oggi deporranno le armi, ma tutti gli altri avranno abbastanza fiducia da non riprenderle più per evitare di ricadere nel dilemma della sicurezza etnica. La verità è che, se la riconciliazione attraverso una soluzione a due Stati è impossibile, come spesso sostengono i paesi a uno Stato, uno Stato pacifico è ancora meno fattibile.

Può darsi che la riconciliazione tra israeliani e palestinesi si riveli presto impossibile. I traumi che entrambe le società hanno dovuto affrontare, e i traumi che questi recenti eventi sono riemersi, hanno l’immenso potere di interrompere i migliori sforzi diplomatici. Ma il fatto che una grande “Pace” sia fuori portata, non suggerisce che la pace, con la p minuscola, essa stessa trasformativa, non possa o non debba essere perseguita vigorosamente, come hanno sempre ipotizzato gli anti-soluzionisti. In realtà ce ne sono altri In effetti, ci sono più scelte tra la riconciliazione perfetta e gli orrori della guerra. Ci sono anche risultati che permetterebbero a entrambi i popoli di perseguire la propria dignità e il proprio benessere.

Un orizzonte di indipendenza politica per entrambe le parti non avrebbe mai dovuto includere la piena riconciliazione e la giustizia. Doveva semplicemente creare le condizioni affinché le persone potessero dissentire mentre costruivano il proprio futuro migliore, assicurato, almeno in una certa misura, da un confine. Allo stesso modo, alla gestione dei conflitti è stata data una cattiva reputazione quando è stata accusata di anti-soluzionismo, ma merita una considerazione molto migliore nel contesto di un percorso verso la risoluzione dei conflitti. È tempo di mettere da parte le visioni utopiche, come sostengono da tempo i cinici, ma, contrariamente ai cinici, è anche tempo di sostituirle non con un rinvio o con una passività politica di fronte alla guerra e all’occupazione in corso. È tempo, piuttosto, di abbinare un orizzonte politico ad una gestione dei conflitti seria, trasformativa, orientata alla soluzione ma allo stesso tempo intransigente: imperfetta, disordinata, esitante, insoddisfacente per tutti, e tuttavia preferibile di gran lunga alla realtà attuale.


UN FUTURO MENO TERRIBILE

Una politica sana deve tracciare un orizzonte politico di indipendenza significativa per entrambe le parti lungo la strada, anche se il linguaggio stanco di una soluzione a due Stati aiuta poco a questo punto. Ci deve essere un chiaro impegno da parte degli Stati Uniti per l’indipendenza palestinese insieme a Israele, anche se i suoi aspetti legati alla sicurezza vengono rinviati a un lontano futuro. E anche se questo orizzonte dovrebbe essere annunciato, gli Stati Uniti devono stabilire le regole di base per il lungo periodo transitorio prima che una vera risoluzione del conflitto sia possibile e applicare queste regole con vigore.

Queste regole includerebbero il confronto con il jihadismo radicale, piuttosto che sperare che in qualche modo si moderi. A Hamas e alla Jihad islamica palestinese, in quanto organizzazioni, non può essere concesso un ruolo significativo dopo la guerra se si vuole che vi sia una diplomazia credibile con Israele. La tolleranza verso il finanziamento di questi gruppi o dei loro rifugi sicuri in altri paesi dovrebbe finire. Se i palestinesi vogliono avere una seria autorità in futuro, non possono operare attraverso due fazioni armate in contrasto tra loro.

Un lato di questa politica non è meno cruciale: occorre arrestare l’emarginazione dell’Autorità palestinese e il rapido deterioramento delle condizioni in Cisgiordania. L’Autorità Palestinese, profondamente impopolare e percepita come corrotta, ha bisogno di riforme, ma rimane l’unico veicolo che potrebbe essere utilizzato per promuovere un’agenzia palestinese produttiva a proprio vantaggio, in un’ottica che non implichi una guerra più devastante con Israele. Con la riforma e il rinnovamento politico, un rinnovato orizzonte diplomatico, un’autorità civile ampliata e una seria repressione della violenza nei confronti dei civili palestinesi in Cisgiordania, l’Autorità Palestinese ha la possibilità di riconquistare la sua rilevanza nella società palestinese.

Sebbene la maggior parte dell’élite israeliana sa che l’Autorità palestinese, se riformata e rivitalizzata, rappresenta la migliore possibilità per un futuro meno violento a Gaza, l’opinione pubblica israeliana è naturalmente diffidente nei confronti dell’idea. La paura di oggi è opprimente e le forze secolari palestinesi che sono state al centro della seconda intifada e degli orrori di quegli anni sono viste dagli israeliani come parte del problema piuttosto che della soluzione. I politici israeliani, Netanyahu in primis, hanno letto correttamente l’umore dell’opinione pubblica e hanno espresso la loro opposizione a un ruolo dell’Autorità palestinese, almeno per ora, a Gaza. Ma questa logica non deve prevalere, se affrontata in modo efficace.

Una sana politica deve tracciare un orizzonte politico di significativa indipendenza per entrambe le parti. Prendendo sul serio la paura che domina oggi la vita israeliana e palestinese, le parti non devono correre rischi con nuove e complesse strutture di sicurezza. Israele non accetterà, nel breve termine, un ruolo più ampio nella sicurezza palestinese in Cisgiordania e ne accetterebbe uno a Gaza solo se Israele manterrà una notevole libertà di azione. Non ci sarà alcun ampliamento a breve termine di quella che gli Accordi di Oslo II chiamavano Area A, una sezione della Cisgiordania dove esiste nominalmente la piena autorità di sicurezza palestinese.

Potrebbe, tuttavia, verificarsi un’autonomia civile palestinese significativamente rafforzata in quella che è conosciuta come Area B in Cisgiordania, dove Israele mantiene la libertà di azione dal punto di vista della sicurezza, ma dove la sua impronta potrebbe essere ridotta.

Sforzarsi di garantire ai palestinesi un controllo civile molto maggiore potrebbe trasformare la vita dei palestinesi, ma solo se si trattasse di un cambiamento significativo. Richiederebbe non solo più denaro o posti di lavoro temporanei, ma una reale autorità palestinese sulla zonizzazione legale dell’uso del territorio, delle risorse, della pianificazione urbana e dello sviluppo economico. Per raggiungere questo obiettivo, l’Area B in Cisgiordania dovrebbe essere ampliata considerevolmente, creando una contiguità molto maggiore del controllo civile palestinese in Cisgiordania, che attualmente consiste di oltre 160 enclave separate, senza alcun cambiamento nell’autorità di sicurezza. Ampliare l’Area B sarebbe molto difficile, dati gli attuali vincoli politici israeliani, ma è una sfida che vale la pena affrontare nei prossimi anni. Affinché un piano del genere ottenga sostegno in Israele, gli Stati Uniti e gli israeliani e i palestinesi interessati a un futuro migliore devono lavorare in modo coerente per creare un cuneo nelle menti israeliane tra le legittime preoccupazioni di sicurezza degli israeliani e la logica dietro l’espansione degli insediamenti israeliani, che ha sostegno più forte che in passato, ma non è ancora la motivazione motivante dell’elettore israeliano medio.

Anche se Israele è diventato molto più aggressivo sulla sicurezza, una tendenza che probabilmente non si placherà rapidamente, non ne consegue che Israele debba diventare più aggressivo sugli insediamenti o sull’ideologia dell’”intera terra di Israele”. La svolta aggressiva di Israele negli ultimi decenni è iniziata con la seconda Intifada, è stata galvanizzata dall’ascesa di Hamas dopo il disimpegno israeliano da Gaza, ed è ora potenziata dall’attacco del 7 ottobre.

Il disimpegno israeliano da Gaza nel 2005 è significativo a questo riguardo. Ampiamente visto in Israele come un fallimento nell’aprire la porta alla presa del controllo della Striscia da parte di Hamas nel 2007, il ritiro di Israele da Gaza ha avuto due componenti che dovrebbero essere separate anche nella politica odierna. Il ritiro militare di Israele da Gaza ha consentito la creazione di uno staterello governato da Hamas confinante con città e villaggi israeliani, ma la rimozione israeliana degli insediamenti da Gaza è stata un successo poiché ha liberato i civili israeliani da Gaza, un incubo per la sicurezza stessa.

Prendendo sul serio le preoccupazioni di Israele in materia di sicurezza, la politica statunitense dovrebbe perseguire con molto più vigore i propri sforzi per contrastare la violenza dei coloni contro i civili palestinesi in Cisgiordania. Allo stesso modo gli Stati Uniti dovrebbero raddoppiare i propri sforzi per impedire l’espansione delle terre e delle giurisdizioni insediate. Gli Stati Uniti dovrebbero fissare l’obiettivo a lungo termine, attualmente impossibile, di abolire gli insediamenti nelle zone remote della Cisgiordania, anche mentre l’autorità di sicurezza rimane nelle mani di Israele.

Gli Stati Uniti hanno già preso in considerazione l’idea di sanzionare i coloni violenti e possono usare la loro considerevole influenza sul governo israeliano in modo molto più deciso per limitare l’espansione degli insediamenti. Il 7 ottobre e la guerra che è seguita hanno dimostrato quanto sia vitale il sostegno degli Stati Uniti a Israele, in termini di copertura materiale e diplomatica, e gli Stati Uniti possono chiarire che il prezzo per tale sostegno è aderire alla visione americana per un futuro migliore.

Ritornare alle controversie sugli accordi con Israele può sembrare politicamente poco attraente per un’amministrazione americana, visti i precedenti. Ma sarebbe essenziale fornire un orizzonte politico ai palestinesi. La pressione degli Stati Uniti su questo tema ridurrebbe anche la paura dei palestinesi, che è esacerbata dalla violenza dei coloni e dall’apparente impunità di cui gode. La paura dei palestinesi è una minaccia per gli israeliani, proprio come le paure israeliane sono una minaccia per i palestinesi.

GAZA IN ROVINA


A Gaza la sfida è particolarmente ardua, dato il bilancio delle vittime e della devastazione. La guerra ha ucciso decine di migliaia di palestinesi e provocato almeno centinaia di migliaia di sfollati. Secondo il Wall Street Journal, circa la metà degli edifici sono stati danneggiati o distrutti. Un percorso da seguire a Gaza richiederebbe la creazione di un ruolo di governo solido e significativo per l’Autorità Palestinese, senza rinnovare la posizione di sicurezza con Israele. Questo approccio richiederebbe di trovare i mezzi per proteggere e governare Gaza e, cosa non meno difficile, finanziarne la ricostruzione. Il compito a Gaza è immenso e scoraggiante, ma ci sono strumenti che offrono almeno qualche strada da percorrere, se colti tempestivamente ed efficacemente.

Prima del 7 ottobre, l’amministrazione Biden era fortemente impegnata nel perseguire la normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele, con controversi impegni di sicurezza degli Stati Uniti e il sostegno a un programma nucleare civile saudita inclusi nell’accordo. Entro settembre 2023, una questione chiave che l’amministrazione si trovava ad affrontare era quale componente palestinese potesse far parte del pacchetto. Assomiglierebbe agli Accordi di Abraham, che rinviarono l’annessione ufficiale israeliana di parti della Cisgiordania ma non fecero altro per promuovere l’autogoverno palestinese? Oppure includerebbe cambiamenti significativi in Cisgiordania che, per la prima volta dal ritiro israeliano da Gaza nel 2005, rafforzerebbero l’autonomia palestinese in modo significativo?

La potenziale normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita offre ancora un’opportunità per fare progressi nel conflitto israelo-palestinese e, nella Gaza del dopoguerra, per offrire almeno qualche speranza per Gaza. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, insieme o in parallelo, potrebbero sostenere gli attori palestinesi nella costruzione di un futuro diverso a Gaza se Hamas non governasse più lì. Hanno il potere arabo e islamico per sostenere gli attori palestinesi laici, e infine la stessa Autorità Palestinese, che entrano a Gaza per governarla.

Se questi paesi vedessero un percorso significativo verso l’indipendenza palestinese – un ritorno politicamente significativo per i loro investimenti – potrebbero contribuire a un massiccio sforzo di ricostruzione in cambio di una voce in capitolo sulla direzione di Gaza. Guadagnare influenza politica a Gaza – e fornire alcuni finanziamenti lì – consentirebbe loro di contrastare l’influenza iraniana, del Qatar e della Turchia a Gaza e fornirebbe un reale guadagno palestinese, che sarebbe politicamente importante per loro se l’Arabia Saudita si unisse agli Emirati Arabi Uniti nella normalizzazione con Israele. Il loro coinvolgimento non sarebbe certamente una panacea per la devastazione della Striscia di Gaza, ma offre una delle migliori strade che vale la pena tentare attualmente.

Gli Stati Uniti non dovrebbero illudersi che le truppe arabe – o di altro tipo – possano o vogliano impegnarsi in quel tipo di campagna di controinsurrezione che, sfortunatamente, sarà probabilmente necessaria a Gaza negli anni a venire. Se ci fosse una presenza di sicurezza araba, avrebbe una funzione limitata e per lo più simbolica. Nessuna forza araba cercherebbe di svolgere un solido ruolo di sicurezza sul terreno, né Israele si fiderebbe di loro per perseguirlo pienamente. Eppure, gli stati arabi potrebbero operare pragmaticamente a Gaza un giorno dopo Hamas – se un giorno del genere arriverà – per ridurre e infine porre fine alla presenza militare permanente israeliana con l’ingresso di autorità palestinesi credibili. Risolvere questa parte del conflitto potrebbe essere molto più attraente per l’Arabia Saudita rispetto a ciò che in definitiva sarebbe un cambiamento tecnico dell’autorità palestinese in Cisgiordania, data la visibilità globale e il disperato bisogno di cambiamento a Gaza, e la liquidità pubblica che lavora per salvare e ricostruire Gaza potrebbe essere un ordine. Questo tipo di sforzo, con tutti i rischi connessi e tutte le possibilità di fallimento, sarebbe un obiettivo degno di un accordo regionale di trasformazione.

Ricostruire Gaza – fisicamente e politicamente – richiederebbe l’arruolamento di tutti gli attori positivi disponibili. L’Egitto, che teme che la guerra possa caricarlo della responsabilità per Gaza – una paura fondamentale per un paese che ha occupato la Striscia tra il 1948 e il 1967 – o con un afflusso di profughi palestinesi, avrebbe bisogno di garanzie da parte di Israele per svolgere un ruolo positivo nella Gaza. Tuttavia, con le dovute garanzie, l’Egitto potrebbe essere inserito in una coalizione araba più ampia con voci laiche palestinesi, e i suoi servizi di intelligence potrebbero anche esercitare un’influenza unica su ciò che accade a Gaza, dove hanno ancora influenza, anche tra i resti di Hamas. Uno sforzo completo arabo-israeliano non può progredire pienamente nel breve termine, poiché Israele è impantanato nella sua guerra e nella risoluzione del suo puzzle politico interno. Tuttavia, la costruzione di questa intesa Golfo-Egitto-Palestina-Israele dovrebbe iniziare prima della fine della guerra, anche se è ben lontana da un pieno riallineamento regionale.

OCCHI SULL’OBIETTIVO

Anche se una soluzione al conflitto non è al momento disponibile, non è una strategia ragionevole quella di tirare avanti senza meta. Questo approccio non è una gestione del conflitto, ma una strategia che permette al conflitto di gestire entrambe le parti. Una gestione dei conflitti efficace e orientata alla soluzione può avere un aspetto molto diverso. Si tratterebbe di fissare un chiaro orizzonte di indipendenza politica per entrambe le parti – qualcosa di simile a una soluzione a due Stati – verso il quale tutti dovrebbero lavorare, e di produrre uno sforzo genuino per indirizzare le cose verso una minore violenza e un minore numero di lamentele in futuro. Sarebbe estremamente difficile, ma molto più facile e meno sanguinoso di qualsiasi alternativa.

Una gestione del conflitto orientata alla soluzione prenderebbe molto sul serio i timori degli israeliani sulla sicurezza, esacerbati il 7 ottobre, mentre assumerebbe una posizione dura nei confronti dell’attività di insediamento israeliano in Cisgiordania che alimenta le paure dei palestinesi. L’obiettivo di questo approccio sarebbe quello di riunire gradualmente Gaza e la Cisgiordania sotto un’Autorità Palestinese costruttiva dotata di una reale autorità civile, inclusa una maggiore contiguità territoriale dell’Area B senza ulteriore capacità di minacciare Israele.

Per anni i negoziatori, compresi i palestinesi, hanno discusso di uno Stato palestinese smilitarizzato come componente di una soluzione a due Stati. È tempo di prendere più sul serio la smilitarizzazione, anche se tutte le parti lavorano seriamente per rilanciare la prospettiva dell’indipendenza palestinese.

Nessuno di questi passi produrrebbe visioni elevate di pace duratura. In effetti, gli Stati Uniti dovrebbero essere cauti nel promettere di realizzare soluzioni ambiziose in tempi brevi, quando così poche persone credono che siano disponibili. Tuttavia, nozioni grandiose di pace non dovrebbero essere nemiche del miglioramento, di cui c’è così disperatamente bisogno al momento. Gli Stati Uniti sono naturalmente, e forse giustamente, stanchi di gestire questo conflitto. Hanno anche questioni e regioni veramente più importanti da considerare. Ma se il 2023 è indicativo, sarebbe molto meglio per i pragmatici politici statunitensi usare il potere americano per cambiare il corso degli eventi in Terra Santa piuttosto che consegnare la situazione nelle mani degli estremisti e delle dinamiche sanguinose che essi incoraggiano.