Si torna a parlare di Rai, come accade periodicamente con precisione cronometrica. Arriva una nuova maggioranza, sposta qualche casella, i notiziari danno qualche minuto in più ai bollettini governativi, l’opposizione si incazza e grida all’occupazione manu militari. poi riceve qualche strapuntino e si mette a tacere. Nessuno che si ponga (più) il problema di un cambio radicale di missione e di governance di quella che fu una grande azienda ed oggi è un residuo del passato, da utilizzare solo se a tarda sera vuoi farti spuntare qualche lacrimuccia spulciando nei suoi archivi per accompagnare il sonno. O per dare uno sguardo a Sanremo (a proposito, ora si annunciano addirittura rivoluzionari sit-in nei giorni del Festival, il modo più brillante e intelligente per mostrarsi in sintonia con il paese reale). Per il resto la Rai di oggi è letteralmente cosa morta.
In casa mia il problema-Rai è stato risolto in radice, quando cominciarono i lavori per il cosiddetto bonus facciate. Prima degli interventi i cavi del digitale terrestre pendevano tutti come liane all’esterno del palazzo, calati dal terrazzo condominiale, ed entravano nelle case attraverso buchi di fortuna (parliamo di un antico palazzo della cosiddetta Napoli-bene, e ho detto tutto…). Fatti i lavori, l’assemblea dei proprietari non trovò un accordo su come sistemare in maniera dignitosa la foresta di antenne sul terrazzo (magari collocandone una sola: ideona ragionevole, quindi non raccolta) e consentire accessi meno barbari nelle case. Risultato: forse da tre anni il palazzo non usufruisce del DTT, salvo che il canone Rai continuiamo a pagarlo regolarmente. Io me ne fotto del tutto, e anche mia moglie (salvo la sua debolezza per UPAS, che risolve via RaiPlay): in famiglia ci abboffiamo di serie (alcune vere e proprie opere d’arte) sulle grandi piattaforme streaming. Come la maggioranza degli italiani d’altronde, se è vero (dati Auditel 2022) che la Rai è seguita da 3.200mila italiani, Mediaset da 3.100mila. Mentre Netflix ha 8.900mila utenti unici, Amazon Prime 6.500mila, tanto per capirci.
Insomma, se guardiamo ai numeri, la Rai è oggettivamente un tema di scarso rilievo, da strapaese, di un’Italia che ha fatto il suo tempo: certo non tale da meritare intere paginate dei giornali o veementi e infuocate dichiarazioni di politici e commentatori. Eppure, periodicamente, suscita memorabili bagarre, quando la maggioranza del momento sente l’irrefrenabile bisogno di cambiarne gli assetti interni, dando il via ad una girandola di nomine che certifica, in pompa magna, l’ennesima “nuova stagione” dell’emittente pubblica. Che poi nuova non è mai, dato che in genere neo-direttori, vice e caporedattori, conduttori di talk etc… si danno il cambio solo in quanto si sono appiccicati addosso per tempo nuove etichette politiche (essendo – questo sì – degli straordinari professionisti nell’annusare l’aria che tira). E ogni “nuova stagione” non porta neppure bene, se è vero – come è verissimo – che qualunque maggioranza abbia cambiato gli assetti Rai, ha poi sempre perso le elezioni successive (verificare per credere la striscia degli ultimi trent’anni).
Perché allora questa centralità politica della Rai? Anche qui la verità è semplice: la Rai è considerata di default come una parte del bottino di chi vince le elezioni, e tale deve simbolicamente rimanere. “Servizio pubblico” finanziato dal canone, governato da un CdA espressione della politica, controllato da un’apposita commissione parlamentare di vigilanza. “Il mio editore di riferimento è la Dc”, disse tanto tempo fa Bruno Vespa: non aveva torto, da allora nulla è cambiato. Malgrado i periodici, ingenui tentativi di qualcuno di immaginarne un futuro à la BBC, la Rai è rimasta un’ineliminabile, inconfondibile tessera dell’eterno condominio Italia. Da cui sale sempre un’antica, casereccia, metaforica “puzza di broccoletti” (Maurizio Costanzo dixit), proprio come accade in tutti i condomini del belpaese (anche in quello che abito, non me ne vogliano i miei dirimpettai).