La domenica andiamo Adagio

Benedetti siano i secondi movimenti. Gli autori li scrivono per farsi perdonare. Dopo avere esposto tutta la mercanzia in primi movimenti magari declaratori, supponenti e autoreferenziali, concedono a noi poveri mortali pause di puro piacere. I secondi tempi dei Concerti (scritti in forma di Adagio, di Largo, di Larghetto) sono brani che chiedono solo di essere ascoltati e goduti. Riecheggiano in maniera sufficientemente vaga i temi principali, e quindi ti liberano da ossessive e capotiche modulazioni. Stemperano lo scontro tra il solista e l’orchestra, e la caduta di tensione esalta la serena centralità di melodie semplici, suadenti e accattivanti.

Parliamo di motivi spesso indimenticabili, che ti rapiscono e ti restano dentro. Non a caso, in tante occasioni, saccheggiati dal cinema. A volte l’uso di brani classici nei film è solo un espediente per compiacere lo spettatore, per sottrarsi alla responsabilità di filmaker. Ma come dimenticare la perfetta adesione dell’“Adagietto” della Quinta di Mahler all’atmosfera di Morte a Venezia di Visconti, o l’effetto straniante del “Largo” dal Concerto in Fa minore di Bach in “Hannah e le sue sorelle” di Woody Allen?

Con gli Adagio bisogna andarci cauti. Vanno maneggiati con cura, non bisogna farsi avvolgere nelle loro spire: il solista narcisista vi si può facilmente smarrire. Prendete il fantastico Adagio di Ravel del Concerto per piano e orchestra in Sol maggiore (ve ne faccio ascoltare tre versioni) e il suo momento cruciale: l’ingresso dell’orchestra, annunciata da una nota di flauto lunghissima e struggente. Il pianista deve rispettare questo passaggio, prepararlo con misura, arretrare quando è il momento. Non avviene così con quel vecchio showman di Bernstein, che fa durare un’eternità (3’28”) l’assolo e pare non voler cedere il passo all’orchestra. Anche l’intensa e carnale Martha Argerich mostra qualche resistenza a uscire di scena. E ammirate invece la perfezione e il rigore di Arturo Benedetti Michelangeli, peraltro qui diretto da quel mostro di Celibidache; guardate come domina senza svenevolezze l’assolo in meno di 3 minuti, per farsi da parte esattamente quando si deve. Diciamo la verità: l’uomo che “scolpiva” le note è stato veramente il più grande di tutti.

E per ricordarvi che la musica è una e una sola – non sto cambiando argomento, nessuno si risenta – ascoltate Little Wing di Jimi Hendrix nella versione di Sting, dove si usa lo stesso, magico espediente di Ravel. Dopo l’assolo di chitarra – certo non “sporco e cattivo” come quello di Hendrix – c’è l’ingresso di una nota lunga e trattenuta di clarinetto, proprio come avviene con il flauto nell’Adagio. Effetto assicurato anche in questo caso.