Il morto che cerca di afferrare il vivo

Torno su Geolier perché ne vale la pena, ma non intendo neanche sfiorare il deprimente dibattito partito dal luogo nel quale è nato. Non appena quella città (che è anche la mia) viene evocata, ogni cosa viene deformata, macchiata, fraintesa, strumentalizzata, esaltata, offesa. Il che, se da una parte conferma l’innegabile attrazione fatale che questo spicchio di terra esercita per tanti, dall’altra ha come unica conseguenza la periodica riapertura di un dibattito pubblico asfittico e provincialissimo, alimentato non da coloro che in questo luogo sono nati, ma da quelli che ci moriranno senza neppure intravedere il mondo.

Generalmente coloro su cui amano discettare i “morti” (detto con rispetto e condivisione, ormai anche il mio loculo è situato nel cimitero locale) sono i nativi che hanno mollato gli ormeggi e navigano il pianeta. I quali non mancano mai di rendere omaggio alle proprie origini, con lacrimuccia e frasetta di circostanza (“Crescere a [aggiungete il quartiere che preferite] ti dà una marcia in più”), ma per loro fortuna ragionano e operano a mille miglia di distanza. Come Geolier, che dal 2019 scala tutte le classifiche di vendita, colleziona dischi di platino, collabora con i principali rapper mondiali, e orienta le sue scelte nell’universo del marketing strategico della Warner Music Group, la più grande etichetta discografica mondiale di cui è parte.

Come sempre accade, il micidiale dibattito nostrano (con classifiche discutibili e sospetti annessi), che dal buco nero si è esteso all’Italia intera, ha oscurato l’oggetto, e cioè la canzone di Geolier, che, a mio avviso, è uno dei brani di qualità (forse il migliore) ascoltati a Sanremo. “Io p’ me, tu p’ te” è un prodotto da non sottovalutare. Per la melodia, che ha una linea di canto sinuosa e arabeggiante, non agevole da maneggiare; per la struttura armonica semplice, ma ricca di sfumature (con un trionfo di settime aumentate, none e seste); e finanche per le parole, che parlano sì di un amore perduto, ma in fondo inneggiano alle responsabilità individuali che i protagonisti della storia devono sapersi assumere.

Se non fosse nato nel luogo che non nominiamo, se fosse sbarcato a Sanremo da oltreoceano, se la collocazione di accenti e apostrofi fosse stata impresa impervia per i puristi del cazzo del dialetto locale (ops… lingua, non sia mai detto…), se la sua esibizione non avesse mobilitato i mercanti del tempio di una sala stampa, Geolier non avrebbe fomentato l’Italia degli eterni dibattiti ombelicali. Lo ha fatto, e ora, giustamente, se ne giova pure (andatevi a guardare le interviste che fa sui social). Bravo lui, con il mondo che ha intorno. Lui e loro vivi, noi morti.