Uno legge i giornali stamattina e si fa piuttosto semplicemente l’idea che la sentenza del Tar Lazio sui direttori dei musei non sia proprio un capolavoro di giurisprudenza applicata. Da Cassese in giù, intervistati da chiunque, i principali studiosi italiani del diritto eccepiscono sulla cavillosità del giudizio, e spiegano perché e come i magistrati avrebbero potuto accertare che i colloqui via Skype (software, immagino, sconosciuto agli illustri togati) dei candidati sono stati registrati e quindi divulgati, o che il ricorso a stranieri per incarichi pubblici è tranquillamente previsto da una norma generale europea. E dunque: non che io sia particolarmente innamorato di competenze e specialismi (non potrei, non avendone nessuno); però, se esperti, avvocatoni e giureconsulti concordano nella critica alla sentenza, sarebbe il caso di armarsi tutti di umiltà e prendere atto che, in linea di massima, i giudici del Tar Lazio hanno fatto una cazzata (e – come dire – non sarebbe la prima). Potrebbero concordare proprio tutti, compresi gli studenti fuoricorso di giurisprudenza che strologano in rete, i legulei in servizio permanente effettivo, gli innumerevoli azzeccagarbugli da tastiera. E potrebbero rassegnarsi anche i tifosi. Quelli che hanno colto la sentenza al balzo per prendersela con Renzi, Franceschini e compagnia bella.
Già, ma non sono anche io un tifoso? Non sono stato io, ieri, a twittare “La sentenza del #TAR Lazio: è sempre la coda lunga del 4 dicembre, vera tragedia epocale.”? Legando quindi la sentenza ad una vicenda in apparenza distante e lontana? Certo, e l’ho fatto perché innumerevoli eventi mi dicono che, dal 4 dicembre, è in atto una pesante controffensiva dei poteri (non forti, ma effettivi) che si sentivano minacciati dal referendum, e dal giorno dopo puntano a vendicarsi, a tornare saldamente in sella, a rimettere i puntini sulle i dopo un triennio di ubriacanti annunci e vagheggiate novità. E’ una convinzione politica, la mia, e sono sempre pronto ad abbandonarla. Anche se non aiutano a farmi cambiare idea interviste come quelle del nuovo signore del 3%, un uomo cresciuto a pane e Pci, allevato ad una visione della politica nazionale unitaria ed egemonica, che stamattina dalle pagine del Corriere trasuda solo risentimento, voglia di vendetta e spirito settario, ridotto come un vecchio extraparlamentare di un gruppo emmelle: un tifoso cupo e irragionevole.
Con il tifo bisogna stare molto attenti. Non dico che bisognerebbe immunizzarsi, che ci vorrebbe un vaccino per il tifo (non parlo di quello derivante da Salmonella enterica…). Quantomeno, però, bisognerebbe fissare dei confini. Per esempio, bisognerebbe maturare l’idea che la vendetta, già stupida e inutile, peggiora la vita propria, non quella degli altri. Per esempio, si potrebbero lasciare – per convenzione universalmente condivisa – ai competenti ed agli esperti delle aree di reale “sovranità”. Oppure semplicemente premiare chi coltiva il dubbio (non pregiudiziale) e l’apertura mentale almeno con un like, se non con una borsa di studio. Oppure, tento per cominciare, stabilire delle aree in cui ognuno deve confinarlo, sto tifo. Coltivandolo pudicamente, privatamente (e un po’ anche vergognandosene).
Prendete quello che mi accadrà domenica pomeriggio, quando il mio tifo esploderà, diventando palpitazione, commozione, pura irrazionalità. Sarei dovuto rimanere a Napoli in famiglia a guardare Roma-Genoa prendendomi gli sfottò di mia moglie, e il mio tifo si sarebbe ulteriormente inasprito, incattivito. Ho deciso che invece me ne starò a Roma, senza un biglietto per lo stadio (chiesto a diversi potenti, che – nella circostanza – si sono dati…), a soffrire da solo davanti alla Tv. Dando sfogo alle peggiori nequizie di cui è capace un tifoso. Ma almeno senza farmi vedere da nessuno. Dovremmo cercare di adottare questo metodo il più possibile. Signori, quando viene fuori il tifoso che è in noi, proviamo a nasconderci: ci facciamo una figura migliore.