Dopo un pezzo di Andrea Montanari che riportava, su MF, i fatturati 2018 delle società italiane di lobbying, in questi giorni si è aperta tra amici e colleghi una discussione sulle nostre attività: su come sono considerate, su come regolamentarle, sull’ampiezza del mercato di settore. Da vecchio lobbista, confesso che trovo piuttosto inutile e per certi aspetti stucchevole la ciclica riapertura del dibattito sulla materia, a meno che non lo si imposti su basi radicalmente nuove. Provo a spiegarmi, e perdonatemi la lunghezza.
- A conti fatti, dal pezzo di MF emerge che le società che si occupano di lobbying e public affairs coprono un mercato che non supera i 35 milioni di euro: robetta, insomma. Ma naturalmente i dati non tengono conto di tutti coloro che svolgono effettivamente queste attività: innanzitutto gli operatori dei media vecchi e nuovi – i principali veicoli della moderna rappresentanza di interessi – e poi manager interni alle aziende, studi legali, agenzie di pubbliche relazioni, singoli professionisti, associazioni, fondazioni, movimenti. La realtà contemporanea – ormai liberata dalle catene della rigida e ordinata rappresentanza tradizionale – pullula di portatori di interessi. Nel mondo che cambia siamo tutti sempre più lobbisti, cioè promotori, organizzatori e mediatori del consenso. E dunque, cari amici, noi professionisti del settore evitiamo di attardarci sui numeretti delle classifiche, non ci perdiamo in lamentazioni, difese corporative o scaramucce tra noi. Fuori c’è il mondo nuovo: un mercato sconfinato pronto per accogliere chi ha voglia e idee nuove da mettere in campo per fare legittimamente prevalere, nel dibattito pubblico, un interesse piuttosto che un altro.
- Questa è la ragione di fondo per cui non sono per nulla interessato all’eterno dibattito su come disciplinare le attività di lobbying. In Italia, di solito, gli interventi del legislatore rendono difficili le cose semplici. Figuriamoci quando si tratta di agire in un campo delicato e “di confine” come il nostro, già segnato da un basso tasso di popolarità mediatica, negli ultimi tempi a rischio per la norma assurda, capotica e ambigua sul “traffico di influenze illecite”. Se volessero regolamentare davvero il nostro settore, i pubblici poteri dovrebbero fare una sola e semplicissima cosa: mettere in trasparenza l’intero processo decisionale, istituire registri per censire i rapporti tra decisori e rappresentanti di interesse in ogni sede istituzionale, impegnare la Pubblica Amministrazione a tutti i livelli – con analoga trasparenza – a fornire risposte rapide e precise sui temi posti. E sempre sapendo che le relazioni con le istituzioni sono solo una parte, e non preponderante, delle attività di lobbying. Quanto conta un titolo inventato da un giornale, un dato falso che circola in rete, un movimento di opinione apparentemente naif creato da un aspirante consigliere comunale, nell’influenzare un decisore in una direzione o in un’altra? E il problema, secondo il legislatore, sarebbe quello del “traffico di influenze illecite”? Ma per cortesia…
- Tantomeno sono dell’idea che si debba stabilire con un albo o qualcosa di simile chi è lobbista e chi non lo è. Qualunque forma di corporazione mi fa venire l’orticaria. Un lobbista è bravo e capace se porta risultati per l’interesse che rappresenta. Come lo faccia, dipende dalla capacità strategica, dalla visione, dalla qualità del lavoro, dalla preparazione specifica che è in grado di mettere in campo. Buon per lui se gli atti che compie non infrangono leggi, se lo fa in forma professionale e trasparente. In caso contrario è sempre lui a mettersi a rischio galera o ad abbassare il suo rating sul mercato. Non c’è associazione che possa proteggerlo. O meglio: una qualunque forma di associazione servirebbe solo a proteggere gli scarsi e i pelandroni, come avviene in tutti gli ordini professionali che conosco.
- Questo vuol dire allora che tutte le gatte sono bigie? Che non c’è possibile distinzione tra lobbisti bravi e lobbisti meno bravi? Tra professionisti capaci e maneggioni, tra specialisti e analisti di livello e chiacchieroni e millantatori di ogni risma? Naturalmente no: la differenza c’è. Solo che deve essere – e non può che essere – il mercato a decidere chi è bravo e chi no. Se – poniamo – un’azienda ritiene di rispondere ai suoi problemi di reputazione dando credito a chi gli propone di comprare like a tonnellate sui social, prima o poi sarà l’azienda a scoprire che ci vuole ben altro. Se – poniamo – un’associazione di imprese crede di poter risolvere complessi problemi normativi assillando parlamentari e tecnostrutture ministeriali senza che i suoi consulenti lavorino a soluzioni credibili e possibili, non approderà a nessun risultato e si accorgerà a sue spese di aver perseguito una strategia sbagliata. E così via…
- In conclusione. Se vogliamo su questi temi avviare una nuova, bella discussione, facciamo pure. Ma cerchiamo, amici miei, di elevare i toni. E, soprattutto, collochiamo le problematiche delle nostre attività nel contesto vero. C’è una gigantesca crisi del rapporto tra interessi e politica, figlia dell’esaurimento dei vecchi meccanismi di rappresentanza. C’è un problema di percorsi del dibattito pubblico sulle grandi scelte strategiche di un paese, c’è un problema di rapporti tra l’industria e i territori, c’è un problema di finanziamento della politica. Se i lobbisti italiani riusciranno a dare una mano a sciogliere in positivo questi grandi nodi, miglioreranno fatturati, reputazione e daranno una mano a far funzionare meglio il sistema democratico.
Caro Claudio sono totalmente d’accordo con te, l’ho scritto e lasciato anche agli atti delle adozioni svolte sul tema alcuni anni fa. Ma credo che la categoria, ammesso che ne esista una, non sia del nostro stesso avviso.
Un caro saluto
Francesco Schlitzer
Molto interessante e ricco di spunti. La letteratura politologica distingue tra interesse e pressione, assegnando al primo repertorio la spinta prodotta da gruppi legittimamente coinvolti nei processi decisionali e al secondo termine la tensione ideologica a influenzare le scelte dei decisori. Le lobby e i lobbisti soffrono di un peccato terminologico originario, come molte delle parole mutuate dal sistema politico americano e calate prematuramente in quello italiano per etichettare comportamenti devianti rispetto alle prassi costituzionali. Mi torna in mente le difficoltà di utilizzare categorie come “partito pigliatutto” o “non decisioni making” se non come americanizzazione del sistema politico italiano. Con l’unica differenza che oltre oceano la trasparenza é un dogma rispetto alla caccia alle streghe e alle caste che affligge il dibattito e lo stesso spirito pubblico nel nostro Paese. Americanizzazione come degenerazione ovviamente. PS: I dibattiti inutili aiutano talvolta i più giovani a porsi problemi già risolti dai più anziani.