Post lunghissimo, scusatemi. L’ho scritto mentre viene fuori la notizia che parlamentari e amministratori vari avrebbero usufruito del bonus post-Covid. Come fanno tanti loro connazionali in mille occasioni, penetrando nelle maglie delle contorte leggi italiane per beneficiarne, rivendicando diritti formali spesso non conciliabili con principi di etica individuale. D’altronde i parlamentari sono italiani, non vengono da un altro pianeta. Detto questo, la vicenda non cambia di un’acca il mio giudizio sul referendum prossimo venturo. Perché non c’entra niente, a mio avviso. Buona lettura.
Tra i miei amici liberali, colti, civili, democratici, riformisti, non ce n’è uno intenzionato a votare sì al prossimo referendum sulla riduzione dei parlamentari.
In effetti, di pancia, verrebbe di mobilitarsi con la suddetta schiatta di Eletti (in genere da nessuno), e impugnare la bandiera del No, a difesa del sacro istituto parlamentare, della rappresentanza democratica, e di ogni altro concetto che possa grondare un po’ di verbosa retorica. Anche a me fa ribrezzo la cosiddetta antipolitica. Non mi piacciono per niente i Cinquestelle, portabandiera della riduzione dei parlamentari. Sono risibili gli argomenti contabili a sostegno del taglio, di fronte alla voragine quotidiana del budget pubblico che tutti alimentiamo con noncuranza (senza mai produrci in alte grida). Così come è probabile che una vittoria del sì produca qualche squilibrio istituzionale in più, in termini di rappresentanza dei territori e della creazione di nuovi colli di bottiglia nel già farraginoso processo legislativo italiano.
Eppure c’è qualcosa che non mi suona nel virtuoso e vigoroso risveglio delle coscienze che precede il voto di settembre. Forse perché vi prendono parte, oltre alle poche anime (belle) dell’esangue liberalismo italiano, alcune categorie di persone che non mi stanno granché simpatiche, tutte palesemente infastidite dalla volgarità qualunquista del sì. Dai conservatori tout court, vestali della Costituzione più bella e bucherellata del mondo, ai piagnucolosi benaltristi in cerca della riforma perfetta, progettisti di istituzioni fatte con il Lego. Da coloro che anche alla roulette andrebbero in cerca del blu o del lilla tra il rosso e il nero, terzisti per intima, pusillanime vocazione o per indifferibile esigenza di posizionamento mediatico; fino all’eterna categoria dei bacchettatori, pedanti archivisti della coerenza altrui, che passano la vita a spulciare contraddizioni in vecchie dichiarazioni di politici che neppure un questurino i mattinali di una volta. Direte che anche queste mie personali idiosincrasie sono di pancia (non vi do torto), e che in un referendum, ancor più che in altre consultazioni, non devi pensare a chi ti accompagni ma all’obiettivo da realizzare. E sia. Andiamo alla sostanza, allora.
Io penso che in Italia sia sensato ridurre i parlamentari, tutto qua. Perché sono tanti (direttamente eletti dal popolo), più che in ogni altro paese d’Europa. Erano 811 nel 1948, progressivamente dilatati fino al 1963, quando fu fissata la quota di 945 (e non c’erano ancora le Regioni, che oggi eleggono quasi 900 consiglieri con crescenti funzioni legislative). Vi pare che dare una spolveratina a questo esercito di rappresentanti del popolo configuri una “spallata a quella democrazia rappresentativa e partecipativa che abbiamo un disperato bisogno di ricostruire” (Montanari), che “il taglio dei parlamentari è il taglio della nostra democrazia” (Baldelli), che “con questa riforma si indebolisce la democrazia” (Mirabelli)? Suvvia, signori, misurate le parole e fate i conti con la realtà. Almeno da 40 anni a questa parte, i fatti ci dicono che la democrazia italiana soffre non di scarsa rappresentatività, ma di inefficacia della governance, a tutti i livelli. Tant’è che le classi dirigenti (almeno quelle più avvedute) hanno periodicamente tentato di ammodernare il sistema (e di ridurre i parlamentari, proposta presente in tutti i progetti di riforma) per renderlo più funzionante, veloce e snello. Senza risultati, certo. Ma se le varie Bicamerali e disegni organici come quello del 2016 hanno fallito, non significa che l’obiettivo sia sbagliato. Il problema c’è.
A questo punto sento distintamente una vocina che chiede: d’accordo ma, posto che il problema sia quello che sostieni, il sì al referendum di per sé lo risolve? Ovviamente no. Ridotti i parlamentari, sarà necessaria una nuova legge elettorale, andranno riscritti collegi e circoscrizioni, modificati i regolamenti delle Camere… andranno fatte un sacco di cose – con fatica e molta buona volontà – in grado di ridare un senso di marcia credibile al sistema Italia, a maggior ragione negli anni a venire, che saranno durissimi. Il sì – forse – può dare una spinta a farle. E comunque – viene da controbattere – se invece vincesse il no, c’è speranza che questi problemi sarebbero affrontati? Il rigetto del referendum non sarebbe un ulteriore, fatale colpo ad ogni possibile ammodernamento del sistema? Datela voi la risposta, a me sembra piuttosto scontata.
Ma veniamo all’argomento principe di chi non vuole saperne di votare in compagnia di Grillo, Di Maio, Bonafede etc… Se voto sì – dice il liberale tutto d’un pezzo – porto acqua al mulino del populismo e dell’antipolitica, do ragione a loro, mi piego ad una visione del mondo che non sarà mai la mia. Meglio una nobile testimonianza, ancorché – presumibilmente – minoritaria. E qui il discorso si allarga, va molto al di là della scelta referendaria. Perché, cari amici miei, è forse venuto il momento di dirsi sul serio che i populisti sono pessimi – per cultura che diffondono, politiche che praticano, linguaggi che usano – ma a loro non si risponde presidiando le casematte della politica tradizionale, ormai strutturalmente inadeguate a interagire con un mondo profondamente cambiato.
Nessuna istituzione più di un Parlamento nazionale lo dimostra, non solo in Italia. I Parlamenti sono stati storicamente il cuore pulsante degli Stati-nazione; ne hanno accompagnato dappertutto la nascita, lo sviluppo, i successi. Oggi il loro ruolo è ridimensionato perché gli Stati-nazione hanno esaurito la loro spinta propulsiva, sopravvivono a sé stessi in un mondo nel quale merci, denari e informazione circolano liberamente, senza alcuna frontiera o barriera. E nel quale i poteri statali residui, di natura organizzativa e burocratica, tendono sempre più a spostarsi verso l’alto (istituzioni sovranazionali o transnazionali) o verso il basso, nei territori, più vicini naturaliter alle esigenze concrete dei cittadini.
Questo – credetemi – non è un discorso astratto, è concretissimo. Chiedetevi che cosa di essenziale decide nel corso di un anno il Parlamento italiano. Lavora e vota pochissime leggi-omnibus, mostri giuridici prodotti allo scopo di aggirare lungaggini insopportabili e procedure bizantine. Converte decreti-legge o approva provvedimenti governativi su cui al massimo può esercitarsi in un po’ di guerriglia, fino all’arrivo dell’inesorabile voto di fiducia. Mentre – a proposito di cessione reale di sovranità – crescono le ratifiche di trattati internazionali, adempimenti europei, leggi regionali.
La gente – la famosa gente – questo lo capisce a naso, lo percepisce. Una volta era chiaro a tutti che in Parlamento si prendevano le decisioni importanti, arrivarvi era un traguardo per i migliori, politici, professionisti o lavoratori che fossero. Riti e procedure della democrazia parlamentare avevano una loro solennità perché corrispondevano a processi reali nella società. Oggi il Parlamento (nessuno me ne voglia) è per le seconde file, per coloro che magari non ce l’hanno fatta altrove. Proprio perché non è un luogo dove si prendono decisioni cruciali.
E’ in questa nuova configurazione del(i) Parlamento(i) e degli Stati-nazione che prende piede la cosiddetta antipolitica, con il populismo che ne è figlio legittimo. E’ in questa caotica realtà nuova che prende corpo la crisi della democrazia rappresentativa. Che – mi direte – al momento non ha alternative, che non siano modelli autoritari o fumose derive pandemocratiche. E’ vero. Ma non mi rassegno all’idea che i liberali, i democratici, i riformisti debbano ridursi a giocare in difesa. Anche in occasione del referendum di settembre, mi piacerebbe che si misurassero in campo aperto con il nuovo mondo, facendosi portatori di idee di rinnovamento di un’istituzione e di un sistema che mostra inesorabili crepe. Non chiamandosi fuori per gridare il NO dell’impotenza.
Ma quale “chiamarsi fuori”? La scelta è chiara, allo stato la “riforma” è una puttanata, il “meno peggio” del sì, visti i fallimenti precedenti, è una scelta di rimessa. Se passa il sì passa la puttanata. Al momento è impossibile portare avanti concretamente “idee di rinnovamento di un’istituzione e di un sistema che mostra inesorabili crepe” vista la cappa imposta da Casaleggio/Casalino, Zingaretti e Salvini.
Quindi la prima “idea di rinnovamento” è fare circolare è che c’è chi non ci sta alle loro puttante.
(Intanto la battaglia sindacale nel mio ente pubblico è sul riconoscimento dei buoni pasto ai dipendenti che “lavorano” da casa… hai voglia a rinnovare!).
Mah! non è che non hai ragione, è che sei sull’azzardo delle ipotesi politiche.
Voto No anche si mi sento come quello che aggrappato alla radice sopra il burrone vide una fragola rossa…. come era buona pensò mentre precipitava.
E comunque:
Faccio un ragionamento emotivo:
Darla vinta alla demagogia 5s non mi va bene, voto NO.
Faccio un ragionamento razionale: 600 parlamentari sono nelle mani delle segreterie che se li giocano come vogliono, avremo una oligarchia statalista autoreferenziale. Il sogno del sistema Ditta che svanirà quando il PD scenderà sotto il 20%. Voto NO.
Faccio un ragionamento politico: sconfiggere il maldestro progetto grillino è il solo presupposto perché discutere di riorganizzazione della struttura di governo del paese torni all’ordine del giorno in modo consapevole da parte di tutte le forze politiche. Voto NO.
Chi vota si da fiato alla demagogia anti casta e anti politica, grave errore politico.