E poi, vuoi mettere il ritornello di una banale canzonetta con l’impresa – a volte problematica – di venire a capo delle voci di una Fuga del Clavicembalo ben temperato, le cui note si rincorrevano ossessivamente e quotidianamente in casa?
Aveva il suo bel da fare mia madre, in gioventù promettente concertista e poi piegata alle fatiche del dopoguerra a fianco di un onesto artigiano tipografo, per instillare gocce di tecnica e di cuore in allieve generalmente di buona famiglia e poco dotate. Minuta e lieve com’era, esibiva corporeità solo quando scuoteva i tendini delle sue piccole mani (troppo piccole per le ottave imperiose dei grandi Concerti, si lamentava sempre) per battere con gesto netto il tempo, o quando cercava di dare vita a certa materia informe imponendo schiene dritte e sollevando polsi perennemente accasciati.
Ma avevo un bel da fare anche io, quando mi sistemavo in un angolo vicino al pianoforte, e all’attento ascolto delle continue ripetizioni dei difficili passaggi del Clavicembalo accompagnavo la vista delle gambe tornite delle allieve. L’illuminazione arrivò quando ne scorsi un paio avvolte dentro un reggicalze bianco, la cui titolare provava la progressione degli arpeggi nel preludio in Do# maggiore, BWV 848. Mi furono chiare due cose, in quel momento: che quel preludio sarebbe stata la mia musica della vita; e che io e Bach, in fondo, facevamo un lavoro simile. Entrambi cercavamo di salire sempre più su, di conquistare posizioni, di scalare vette. La mistica ascesa al cielo del Kapellmeister di Eisenach corrispondeva al faticoso addentrarsi del mio sguardo nei segreti di quel reggicalze.
Più tardi – ma non così tanto – scoprii che musica e pulsioni ormai quasi adolescenziali fecondavano anche fuori dei rigorosi territori bachiani, legandosi a granelli di sabbia, sapori di sale, notti di luna calante, gatte con macchie nere sul muso, e a tanti, tanti baci: addirittura 24mila. La sorte mi aveva consegnato una sorella con dieci anni in più e la funzione di controllore delle sue virtù; così, sempre “in tredici”, potevo aggirarmi nei pomeriggi danzanti dell’epoca tra cotonatissimi capelli, gonne sbuffanti e twin set troppo attillati, sognando la perdita delle mie, di virtù. Nelle circostanze svolgevo compiti di bassa manovalanza; in sostanza avevo il permesso di cambiare i dischi. Lo facevo con impegno e professionalità, evitando il peggio (tipo “Pissi pissi bao bao”, per capirci), anche se i risultati scontentavano tutti, e trasversalmente. Bellone e timidoni, playboy con occhio prensile e irriformabili racchie: tutti inseguivano un solo, inconfessabile obiettivo, che pareva dipendere unicamente dall’alternarsi e dal ritmo delle canzoni. “Dai, metti un lento”, “E basta co’ ‘sti twist”. Evidentemente c’era un tempo per “Andavo a cento all’ora” e uno per “Il cielo in una stanza”. Ma a me sfuggivano le variazioni del climax di una serata. Ricordo ancora adesso quando una volta, confuso dalle richieste, rapito dall’esotismo della cinesina in copertina e già preso dal perverso fascino delle colonne sonore, misi sul piatto, nel momento sbagliato, “Il mondo di Suzie Wong”. Fui esonerato dalla funzione di DJ un minuto dopo.
Solo quando mi misi in proprio, qualche anno dopo, trovai finalmente piena soddisfazione: un flautato organo Hammond mise d’accordo esplosioni ormonali e competenze musicali. Nessuno, neppure il più arrabbiato tra gli aspiranti beatnik, si opponeva quando, nei fumosissimi balletti dell’autunno del ’67, partiva quel magico, lunghissimo Mi sostenuto dal basso continuo: Do, Si, La, Sol… Era suono perfetto. Era armonia pura. Era pace interiore. Io lo sapevo: era Bach.
Con alcuni, scelti carbonari, la discussione prese subito una piega specialistica. Che la struttura del pezzo fosse molto simile al secondo movimento della Suite in Re, BWV 1068 (volgarmente: l’Aria sulla quarta corda), era evidente. Ma per me quella interminabile progressione discendente del basso incastonata nel gioco semplice degli accordi di fondamentale, sottodominante e dominante (Do, Fa, Sol), conteneva un messaggio più grande, universale. Con “A whiter shade of pale”, la Musica – quella vera – fuoriusciva finalmente dai pentagrammi e si svelava al popolo errante delle chitarre Eko, dei violentati pianoforti di famiglia, dei complessi che andavano nascendo come funghi in ogni scantinato della città. In effetti, da allora, eserciti di incolti zappatori beat incrociarono le basi immortali dell’armonia, le Tavole della Legge dettate da Giovanni Sebastiano, e ne furono illuminati. Come toccati da grazia celeste, appresero che oltre gli accordi di settima c’erano le quarte e le bellissime e ormai dimenticate diminuite; scoprirono che “Fra’ Martino” era in realtà un dotto canone, non un fastidioso e infantile gioco di voci; gli iniziati alla gara del “più-canzoni-con-il-giro-di-Do” passarono al livello successivo, quello del “più-canzoni-col-basso-continuo-discendente”. Tutti gli altri, in quell’autunno del ’67, ebbero comunque a disposizione 4 infiniti minuti (e 5 secondi, per la precisione) per avvolgersi come serpenti a sonagli a ragazzine sognanti, senza passare (solo) per coglioni arrapati. Era sempre la Musica a consentirlo.