D’altronde, cosa non consentiva al tempo la musica? E cosa non transitò per la musica, nel corso di quegli anni? Oggi gli over 50 – in prima battuta – negano, rimuovono, fanno finta di niente. Per proteggere il loro frigido, precario disincanto dalle memorie di una stagione di illusioni. Per non apparire oltremodo ridicoli di fronte a figli già sufficientemente infastiditi da una generazione schiacciata dalla nostalgia. Ma basta provocarli un attimo, far risuonare un motivo, un ricordo, un aneddoto, per rimetterli in vita.
Gli under 20 di allora ci credevano, poche storie. Credevano a tutto. Credevano alla politica. E credevano alla musica. Prima che il conflitto diventasse di classe, ci si allenava senza pudori davanti alla Tv nella lotta senza quartiere a Claudio Villa, emblema dei cattivi, dei vecchi e del potere. Un omuncolo tarchiato che non si faceva mai da parte, continuava a vincere Canzonissime e Sanremi gonfiando il petto con protervia, e dichiarandosi pure fieramente comunista. Contraddizioni in seno al popolo, le avrebbe poi definite un mito dell’epoca, a 8000 km di distanza.
Passo successivo l’inevitabile crescita dei capelli, testimonianza di impegno a strati. Superando la fatidica soglia dei lobi orecchiali, andava in scena il riformismo buonista degli Scarafaggi; al traguardo delle spalle, era rivoluzione vera, modello le scandalose Pietre Rotolanti. Sempre musica, certo: ma potevano mai dialogare la melensa “Michelle“ e la ruvida “Jumpin Jack Flash“? Così si insinuò ad un certo punto – maligno – il tarlo della politica: mescolando cose diverse, alimentando scelte divisive. Anche nei gusti musicali, oltre che nell’abbigliamento, negli stili di vita. Provocando associazioni improprie, gratuite. Confondendo piani, costringendo l’intera esistenza dentro schemi miseri. Ne andarono di mezzo mille poesie e melodie dolci, riabilitate con scorno dopo alcuni decenni.
Quando musica e politica incrociarono le armi, per la musica furono anni durissimi. Anni di ballate popolari, canti di montagna, inni marziali. Chitarre zappate oscenamente e cori avvelenati. Brutta musica. E bruttissime parole. Miocaropadronedomanitisparo, si diceva. Poi cominciarono a farlo. Forse fu anche per questo che cercai rifugio nella Casa Grande, preferendo a Ivan Della Mea il premiato duo Pestalozza-Nono. Parole e musica mastodontiche, solenni. Certezze granitiche che ridicolizzavano i dibattiti giovanili in corso. Era più rivoluzionario il progressive rock, il jazz-folk con origini celtiche o la west coast? Domande superflue, compagno. Forse è il caso di approfondire cose un po’ più serie.
Dico – a mio merito – che non mi piegai mai del tutto. I primi concerti italiani dei Jethro Tull continuavano a procurarmi più emozioni dei rocciosi raduni di partito. Ancora oggi mi vanto di non aver mai messo sul piatto del giradischi “Como una ola de fuerza e luz”. Ma in omaggio alla nuova vita i capelli – prima di scomparire – avevano preso provvisoria foggia burocratica, e mi imponevo lunghe serate stemperando l’impervia lettura dei Grundrisse (guai a pronunciarne il titolo in italiano) nell’infatuazione – all’epoca obbligata – per l’“Hammerklavier“ del mai sopportato audioleso di Bonn. Serate ottocentesche e tedesche, non luterane. Anni ingombranti, ridondanti. Pallosi.
Arrivò fin troppo tardi il riflusso, altroché. Dopo tanto sbrodolarsi addosso, fu una salutare ventata di semplicità. In omaggio tardivo al 36 politico, l’esame del “Das Lied von der Erde“ passò da obbligatorio a facoltativo, e, anche per scopare, i leziosi Pink Floyd non furono più universale passepartout. Io non fui in grado di approfittarne, in ogni senso; erano ancora troppo fitte le nebbie politiche che mi avvolgevano. Nella Casa Grande continuavano a dirsi che il sol dell’avvenire era lì lì per sorgere, mentre già si profilava il tramonto. Il suo capo confuso e triste viveva di ossimori: si diceva conservatore e rivoluzionario, uguale e diverso, mescolava morale e politica, dichiarava mani pulite e nascondeva coscienza sporca. Fu in quegli anni che la Casa e il paese intero cominciarono a sembrarmi rappresentazioni fedeli dell’insopportabile melodramma italiano: libretti melensi, musica tronfia, tutti a fauci inutilmente spalancate.
Per questo mi rifugiavo sempre più spesso nel mondo dell’artigiano luterano severo e tranquillo, padre di 20 figli e di 200 cantate. Solo lui capace di esprimere cristallina potenza geometrica, “perfetta imitatio naturae“ (Einstein), “colloquio di Dio con se stesso, poco prima della creazione” (Goethe). Ma capace anche di dare consigli più terreni. In ogni sua fuga il Maestro pareva indicare la strada per affrontare i più inafferrabili problemi politici: un tema iniziale incontra crescenti e diverse voci, ne lascia sprigionare potenza e contraddizioni, fino a governarle e condurle con sapienza verso un ordine superiore. La complessità della vita e la sua riduzione, proprio quello che chiedeva la società nuova: Karl Schmitt, non certo Habermas. Bach, non Wagner, i molli francesi, Mahler. E tantomeno i nipotini novecenteschi dell’illuminismo giacobino: Webern, Schonberg, sperimentalismi, dodecafonia. Mostruosi edifici artificiali: sarebbero crollati, con annessi muri.
A margine di un quadernetto zeppo di appunti politici avevo segnato una frase, forse di Keith Jarrett: “Quando una nota ti racconta troppo, bisogna essere prudenti”. Una nota è una nota è una nota. Non può né deve prendersi altre responsabilità, non può caricarsi di troppi significati, sta bene al suo posto e solo al suo. Ha molti sviluppi possibili, ma uno è quello che produce magia, esalta e crea attese, chiede attenzione, dà e riceve risposte. La musica contemporanea di domande se ne faceva, perdio, ma cercava troppe risposte, e tutte insieme. Un senso ad ogni nota, suono, rumore. Fino a scoppiarne, di senso. Un po’ come la politica, che stava affrontando l’uscita dal secolo breve costruendo micidiali cacofonie.