“Chi capisce solo di calcio non capisce di calcio” è una frase attribuita a José Mourinho, in realtà pronunciata da un suo docente di filosofia all’Università, che lo vedeva annoiato durante una lezione. Stamattina il concetto ha una perentoria attualità. I commenti che si sprecano sul suo esonero dalla Roma sono tutti di gente che “capisce di calcio”: quelli che lo definiscono vecchio e sorpassato, che strologano di moduli e braccetti, costruzioni dal basso e sostituzioni sbagliate. Sono gli “esperti”: valgono come i critici che vanno al cinema e – mentre tu stai lì ad emozionarti come un bambino – ti parlano dell’inquadratura superflua al minuto 76; come i professori che ti chiedono all’esame anno, giorno e mese della nascita di Shakespeare; o come quei comunicatori che potrebbero per ore discettare sul perché la Meloni a un certo punto di una sua conferenza stampa ha esclamato “sto a morì, regà” ed è corsa al bagno. Tutti sepolcri imbiancati, cultori di sé stessi, feticisti del niente. Ignari di quello di cui parlano.
Ignari cioè del fatto che il contesto nel quale si dipana la vicenda Mourinho è globale (come tutto quello che ci accade intorno, d’altronde). La AS Roma ha un presidente americano, che si occupa di distribuzione di auto e produzioni cinematografiche (patrimonio di 6 miliardi di dollari), e che – con un po’ di spiccioli – ha comprato il Cannes e la Roma, con l’evidente obiettivo di allargare i suoi interessi globali nello showbiz, di cui Roma (la città) è un asset da non disprezzare. Per Friedkin la squadra di calcio è solo un utile strumento per fare crescere il positioning delle sue attività, come dimostrano il peso crescente (e i ricavi) del marketing societario, e gli stessi acquisti principali (Mourinho, Dybala, Lukaku) fatti scientificamente uno all’anno, solo in ottica visibilità. Ma come testimonia lo stesso arrivo di De Rossi in panchina, che risponde a criteri di marketing casereccio, non certo di competitività della squadra.
Tanti tifosi piagnucolano per questa deriva del calcio, dicono “così il calcio muore”. È l’esatto contrario. Il calcio muore perché non è più uno spettacolo. Partite che durano 90 (ormai 100) interminabili, quasi sempre inguardabili minuti (e tutti ad aspettare gli highlights, che ci mostrano solo le cose salienti). Campionati nazionali da strapaese, con esiti in genere già decisi, ed eccezioni che scompaiono come meteore. Regole di gioco burocratiche e asfissianti, sempre più giuridicizzate. Tutto sotto l’egida di governances internazionali screditate e delegittimate.
Naturalmente le cose stanno cambiando, perché assistere passivamente al declino del godimento dei calci dati ad un palla è duro per tutti. Cambiano in Africa, dove i talenti esplodono. Cambiano nel Medio Oriente, che per ora organizza mondiali e recluta vecchie glorie, ma investe nelle strutture perché annusa il futuro dello spettacolo. Ma non cambiano nella vecchia Europa (a stento l’Inghilterra, patria del football, cerca di ammodernare il sistema). E figuriamoci quanto e quando possono cambiare le cose in Italia, dove José Mourinho, attore da palcoscenico globale, si trova ad essere discusso da gazzettieri di provincia e nostalgici rincoglioniti.