Sto per allietarvi con qualche riflessione sulla cosiddetta autonomia differenziata. Ma non parlerò di quando e se entrerà mai in vigore (ho molti dubbi a proposito), non mi inoltrerò nelle dispute tra verbosi legulei su LEP e clausole di salvaguardia, e neppure vi intratterrò sulle contorsioni di destra e sinistra sul tema (la sinistra che si oppone la volle nel 2001, la destra che l’approva si nutre di principi saldamente nazionalisti…).
Proviamo quindi a mettere da parte le considerazioni politiche di giornata e guardiamo la cosa più da lontano. Solo così, vi assicuro, riusciremo a vederla meglio.
Le Regioni vengono “previste” dalla Costituzione del 1947 (nel famoso titolo V, poi modificato), ma De Gasperi – nella sua infinita saggezza – non ci pensa neppure a istituirle effettivamente. E così i governanti che seguono, salvo dover cedere alla fine degli anni ’60 alle pressioni della sinistra, che reclamava poteri per le cosiddette regioni rosse (Emilia, Toscana, Umbria). Quando, negli anni ’90, comincia a prendere piede la Lega – che non solo pretende più autonomia per le regioni del Nord, ma minaccia il secessionismo – la sinistra al governo risponde con la riforma del titolo V, nell’illusione demenziale di arginare così le spinte separatiste. Questa, sommariamente, la vicenda delle regioni nei suoi termini essenziali.
Chi, nella storia repubblicana, non ha mai reclamato alcuna autonomia o crescita di poteri è stato l’intero Sud (salvo il fenomeno indipendentista siciliano del dopoguerra, fiammata di breve durata). Ma perché il Mezzogiorno è sempre stato centralista? Perché è sempre stato dipendente e foraggiato in varie forme dal governo nazionale, e non a caso elettoralmente dominato dalla DC negli anni della cosiddetta Prima Repubblica (dopo la storia cambia parzialmente, il Sud alterna il suo radicato governismo con qualche spinta ribellistica, ma sempre evitando come la peste ogni rivendicazione di autonomia).
Spero quindi che non mi si accusi – che so – di “neoborbonismo” se dico che storicamente, oggettivamente, la debolezza strutturale del Sud, il divario con il Nord che cresce, la carenza insopportabile di servizi accettabili, la pochezza delle sue classi dirigenti, sono tutti fattori quantomeno legati alla sua storia fatta di subordinazione e dipendenza. Le cose sarebbero andate diversamente con un Sud più autonomo? Non lo so, la domanda è legittima. Ma il dato di fatto è sotto gli occhi di tutti. Tutti gli standards di crescita, sviluppo, formazione, infrastrutture, qualità della vita etc… dicono che il Sud è indietro, sempre più indietro.
Ora c’è la sfida dell’autonomia differenziata, e ogni discussione di dettaglio è utile, per evitare che la riforma sia una pregiudiziale penalizzazione per il Sud. Ma è possibile che nessun meridionale (governanti salvo forse De Luca, intellettuali, commentatori) abbia uno scatto di orgoglio e urli: “Cazzo, volete affossare (posto che sia vero) il Mezzogiorno? Fate pure, e vi dimostreremo di che cosa siamo capaci. Con le nostre forze metteremo a posto le cose, risaneremo i bilanci, la sanità, i servizi, faremo crescere qui i nostri figli perché daremo loro scuole migliori, città vivibili, qui li faremo vivere e lavorare quando diventeranno grandi. Qui, non altrove. E ci penseremo noi!“.
Nessuno neppure accenna ad un discorso del genere. Il che significa, molto semplicemente, che avalliamo quel discorso vagamente razzistico che sta sullo sfondo del dibattito sull’autonomia. “Vedete, accettano di essere descritti e trattati come parassiti, chiedono l’elemosina, si tengono l’umiliazione della dipendenza. Questo è il Sud!”. Inaccettabile, ma la colpa è tutta nostra. E scusate lo sfogo.